L'Italia è un paese operoso ma ripiegato su se stesso
Una volta si stava peggio, ma il futuro era migliore. Ora si sta meglio, ma il futuro è peggiore. Parla Cassese
Professor Sabino Cassese, Giuliano da Empoli, il 26 aprile scorso, ha lamentato su “Il Foglio” la “completa assenza di una rappresentanza forte dei riformisti e dei moderati”
Vero. Tanto che lo stesso schema riformisti – moderati (o conservatori) è messo in dubbio. La domanda da farsi è: i riformisti quali riforme vogliono? E i conservatori quali politiche vogliono conservare? Insomma, nell’attuale congiuntura, mentre si ricerca un governo, la domanda dovrebbe essere non “con chi andare”, ma “per fare che cosa”? Nessuno si pone queste domande, o almeno esse rimangono sullo sfondo, mentre i poli si dividono, invece di cercare intese, e le divisioni coinvolgono anche i poli stessi, con spaccature interne. Il compito nobile della politica, quello di interpretare i bisogni, anche quelli inespressi, della società, di saper distinguere tra rappresentazione dei problemi, loro percezione, e problemi reali, di saper fissare fini e su questi costruire programmi, questo compito sembra passare in secondo piano.
Quale è la sua diagnosi?
Vedo un paese operoso, ma ripiegato su stesso. “Die Zukunft war früher auch besser”, secondo la nota formula di Karl Valentin. Voglio dire che una volta si stava peggio, ma il futuro era migliore. Ora si sta meglio, ma il futuro è peggiore. E noi tutti viviamo di aspettative, più che del nostro presente.Poi, mancano gli esploratori di connessioni, i coltivatori di memorie (legga il bel libro di Salvatore Veca, Il senso della possibilità. Sei lezioni, edito da Feltrinelli nel 2018).
Parli più chiaramente: che vuol dire? Si riferisce alle condizioni materiali della nostra società, al suo possibile futuro, a quel che ad essa propone la politica?
Bravo! Mi riferisco a tutt’e tre. Ma voglio per ora soffermarmi sulla terza componente. La chiamerei “perdita del fine”. Dominano gli strumenti (la legge Fornero, i vitalizi), come se si potesse sempre governare con gli strumenti (mi faccia continuare a fare il professore e lasci che le consigli un altro libro, questa volta francese, tradotto nel 2009 ed edito da Bruno Mondadori. Il titolo francese era “Gouverner par les instruments” ed è stato tradotto, tradendolo, “Gli strumenti per governare”. Gli autori sono Pierre Lascoumes e Patrick Le Galès, due politologi parigini) Gli strumenti appaiono neutrali, ma veicolano valori, fini. Ma questi rimangono nascosti.
Che cosa significa per lei “perdita del fine”?
Provo a spiegarmi. I riformisti nascono da ben chiari problemi sociali, quelli della classe operaia, quelli dei contadini. Questi problemi sono stati analizzati (pensi ai saggi di Marx ed Engels sulle condizioni della classe operaia in Inghilterra). Sono stati individuati obiettivi. Sono stati fatti programmi. Ci si è divisi su obiettivi e programmi, perché vi era chi riteneva necessari interventi più radicali (un rovesciamento, una rivoluzione), chi si proponeva fini più concreti (controllo delle industrie che sfruttavano il lavoro, programmi di costruzione di abitazioni, norme a tutela dello sfruttamento del lavoro minorile, e così via). In molti casi vi è stata una vera e propria eterogenesi dei fini, cioè si sono verificate conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali, perché – come osservava il nostro grande Giambattista Vico – può accadere che ne esca un risultato contrario ai fini che ci si era proposti.
Fermo, fermo, professore. Basta con le premesse. Ammettiamo pure che vi sia una classe politica generalmente incapace di indicare gli obbiettivi della propria azione. Lei da dove comincerebbe
Lei ora mi chiede di fare quello che Gramsci criticava, la “mosca cocchiera”. Ho appena detto che fini, obiettivi, programmi non possono scaturire che da analisi e dalla capacità di interpretare bisogni sociali. Non vuole ci si impanchi ora in ricerche necessariamente “sul campo”?
Suvvia, non faccia programmi. Indichi “piste di ricerca”.
La seguo malvolentieri. Le indico strade possibili sulle quali riflettere. La prima è quella dei doveri. Questa è addirittura scritta nella Costituzione. C’è qualcuno che in Italia sia pronto a declinare il linguaggio dei doveri? L’altro lato della medaglia l’ha indicato Alessandro Barbano nel volume recente “Troppi diritti” (Mondadori). Ma la nostra Costituzione usa una decina di volte, insieme, diritti e doveri. Abbiamo preso la prima parte, dimenticato la seconda. Non è questa una pista che i conservatori dovrebbero considerare? E perché non anche una intelligente forza riformista?
Continui, continui: è questo il modo concreto che auspicavo.
Metterei al secondo posto il problema della sicurezza. In che senso il bisogno di sicurezza è cambiato? In quale misura percepiamo una insicurezza maggiore di quella che ci circonda? Perché vogliamo tutti che ci sia una specie di assicuratore di “last resort”, e perché richiediamo allo Stato di svolgere questo ruolo? Lo Stato, in ultima istanza, deve assicurarci salute, protezione contro le calamità naturali, difesa nei confronti degli “altri”. Attento: non sto ponendo in dubbio l’esistenza del fattore insicurezza e dei modi diversi in cui è percepita. Voglio solo dire che una forza politica dovrebbe indagare, capire, interpretare, scegliere, proporsi obiettivi in questa direzione.
E siamo a due.
Terzo: il grande sogno dei laburisti e dei fabiani era la libertà dal bisogno. Questo aveva quattro “gambe”: salute, istruzione, lavoro, pensione (e protezione sociale, in generale). Abbiamo fatto passi da giganti, da quando, nel 1942, fu pubblicato quello che va sotto il nome di piano Beveridge. Ma quali ne sono i “buchi”, le inadempienze, in Italia? Emanuele Felice, su “La Repubblica” del 28 aprile scorso, ha segnalato i bassi livelli di istruzione italiana. E quante volte l’ha ripetuto il nostro grande Tullio De Mauro? Perché la scuola sembra assente dallo spazio pubblico? O il problema delle diseguaglianze intergenerazionali, a partire dalla disoccupazione giovanile. E potrei continuare…
Fermiamoci: per ora ce n’è abbastanza. Già tutto questo richiede una forza, una energia, quale tra i riformisti solo Renzi ha finora dimostrato.
Concordo con lei. Ma lei sposta il discorso su un altro piano. Non c’è dubbio che Renzi abbia dato un impulso al riformismo, facendo risorgere tante speranze. Ma poi si è fermato a una narrazione ottimistica della sua azione, una narrazione che non combaciava con le percezioni diffuse, con il diffuso senso di precarietà. Di qui la rivolta anche contro di lui, che pure si era mosso in direzioni giuste.