Il ministro della Democrazia diretta Riccardo Fraccaro (foto LaPresse)

Il referendum è inadeguato alla complessità delle società contemporanee?

Redazione

Perché la semplicità della logica cui risponde il referendum (Sì o No) nasconde due possibili inganni

Professor Cassese, Riccardo Fraccaro, ministro per i Rapporti con il Parlamento e per la democrazia diretta, ha dichiarato al Fatto quotidiano (3 giugno) che “la democrazia diretta è la stella polare del Movimento” e ha detto che mira a una “democrazia integrale” in una intervista al Messaggero (8 giugno). Dobbiamo preoccuparci o gioire?

Prima di tutto, dobbiamo ragionare, partendo da una domanda: come si può decidere nel modo migliore negli stati moderni? Quando dico “nel modo migliore” voglio intendere sia nel modo più rispondente ai bisogni collettivi, sia nel modo più efficiente.

 

D’accordo, ma non la prenda troppo alla larga.

Sia paziente. Cominciamo con l’accertare quel che il nuovo ministro propone. 

Poiché non si è risparmiato negli ultimi tempi, pur non essendo un “fraccarologo”, vorrei ricordarle che egli vuole “integrare la democrazia rappresentativa” e pensa a un “cambiamento progressivo”, nonché a “creare un percorso che permetta una piena informazione prima di decidere” (Corriere della Sera, 6 giugno). Inoltre, mira a introdurre gradualmente una “democrazia digitale” (Messaggero, 8 giugno), è preoccupato “che la volontà del popolo non venga messa in un cassetto” (Corriere della Sera, 6 giugno).

Va anche considerata la proposta di legge Fraccaro del 19 maggio 2015, n. 3124, riassunta sul Foglio del 7 giugno da Stefano Ceccanti, secondo la quale il referendum abrogativo sarebbe senza “quorum” e senza limiti di materia, quello propositivo col solo limite di un controllo della Corte costituzionale, la revisione costituzionale richiederebbe comunque un referendum e un referendum sarebbe automaticamente indetto su leggi relative a trattati internazionali.

Vero, ma il ministro ha anche dichiarato al Fatto quotidiano del 3 giugno che nel referendum propositivo “vanno garantite le coperture finanziarie, la costituzionalità, e ci saranno materie escluse, come i trattati internazionali”. Come vede, si tratta di proposte in divenire. Quindi, discutiamo sul fondo della questione.

 

Cominciando da dove?

Dal quesito. Il referendum risponde a una logica semplice, binaria: bisogna rispondere Sì o No. Ha la forza dell’autorità oracolare, che si esprime in modo semplice, a differenza dell’autorità della legge e di quella della tradizione (non dimentichi Sofocle). Ma la semplicità della logica binaria nasconde due possibili inganni. Uno proviene dal proponente, che può richiedere il referendum per avere un plebiscito personale, cioè aggiunge il peso del consenso sulla sua persona al quesito referendario. E’ il caso del referendum del 4 dicembre 2016 in Italia. Un altro proviene dall’interrogato (il popolo), che dà un significato diverso al quesito propostogli, intende cogliere l’occasione del referendum per mandare un messaggio al proponente o alla classe politica (pensi al referendum britannico, a quello colombiano, a quello ungherese). Quindi, il referendum sembra semplificare, ma rende meno trasparente e chiara l’interrogazione del corpo popolare.

 

Ma come opera di fatto il referendum, dove è stato ampiamente utilizzato?

C’è un bel volume di Yannis Papadopoulos, Démocratie directe (Paris, Economica, 1998) che fa una analisi molto accurata dei referendum e giunge alle seguenti conclusioni: si tratta di un istituto inadeguato alla complessità delle società contemporanee; stimola la conflittualità, invece della cooperazione; incentiva l’irresponsabilità dei governanti (che possono sempre imputare al popolo le scelte sbagliate); stimola comportamenti individualistici e utilitaristici, del tipo Nimby (“not in my backyard”).

 

Margaret Thatcher disse una volta molto di più: il referendum è “strumento per dittatori e demagoghi”.

Lo so. E potrei aggiungere i giudizi molto negativi ripetutamente espressi dall’Economist: “Referendum madness” (14 giugno 2015) e “Why referendums are not always a good idea” (18 maggio 2015). Preferisco però le analisi. Quelle relative all’uso che se ne è fatto in California dimostrano che il referendum si è prestato a molte manipolazioni da parte di lobby, a danno del settore pubblico (sarebbero all’origine della crisi della scuola pubblica in quello stato). E tenga presente che parliamo dell’uso dello strumento referendario in uno stato, con i limiti impliciti nella circostanza che molte materie sono federali, e quindi sono sottratte come tali alla possibilità di consultazioni popolari previste da leggi della California.

 

Torniamo alla complessità.

Pensi a quale ricchezza danno alla vita pubblica il dialogo governanti-governati, ripetute elezioni (la possibilità di non rieleggere), gli spazi aperti all’opinione pubblica e i media. Come tutto questo sarebbe più ricco se gli spazi fossero più aperti, le elezioni più significative (ad esempio, se – come è stato proposto fin dal ’700 – si potesse indicare sia una prima, sia una seconda scelta), i media più indipendenti. La democrazia diretta, ancor più la teledemocrazia, deresponsabilizza, specialmente se comparata alla democrazia associativa, nella quale i movimenti e i partiti siano davvero luoghi di incontro, formazione, selezione della classe dirigente. Possibile che, proprio quando aumenta la complessità, con l’articolazione dei poteri pubblici su più livelli (regionale, nazionale, sovranazionale), si debba generalizzare il ricorso all’alternativa “Sì-No”?

 

Lei ha parlato all’inizio di come si decide nelle democrazie.

Questo, infatti, è il punto più importante. Consideri la differenza tra una decisione presa in Parlamento e una decisione presa con un referendum. La prima passa attraverso una serie di discussioni (non guardi solo il lavoro dell’Aula, cioè dell’Assemblea parlamentare, perché la parte più importante del lavoro dei membri delle Camere si svolge nelle commissioni), la seconda è una decisione senza discussione. La lingua inglese ha il termine deliberation (tradotto erroneamente deliberazione in italiano), che indica una decisione presa dopo un dibattimento, un contraddittorio. Quindi, il referendum ha una natura intrinseca, che è oracolare. Questo credo che sia chiaro anche al ministro per la Democrazia diretta, che si preoccupa dell’informazione dei cittadini, prima della decisione referendaria. Tuttavia, l’informazione è unidirezionale, il contraddittorio comporta invece uno scambio nei due sensi. Se ci pensa bene, il divieto di mandato imperativo è disposto nei regimi contemporanei proprio perché con il mandato imperativo sarebbe impossibile il dibattimento nel Parlamento (che si chiama così proprio perché lì si dibatte, parlando).

 

La democrazia diretta è un modo per assicurare maggiore partecipazione popolare alle decisioni collettive. Ma è l’unica forma?

Ve ne sono altre, e più efficaci. Parlo della cosiddetta democrazia amministrativa, stranamente dimenticata dai teorici della democrazia diretta. Mi riferisco all’intervento dei privati nei procedimenti di decisione amministrativa. Questa in Italia, ha fatto capolino con la legge del 1990, ma langue. Basti pensare che la norma sul dibattito pubblico non è stata ancora emanata. La democrazia amministrativa ha molti vantaggi rispetto alla democrazia referendaria: riguarda decisioni più limitate, sulle quali può aversi dibattito e decisione (pensi al débat public francese); attiene a decisioni veramente interessanti, perché “vicine” alle collettività; può svolgersi facendo esprimere le collettività direttamente interessate; non riguarda soltanto lo stato centrale, come il referendum, ma anche gli altri poteri pubblici. Insomma, mi chiedo perché tanto interesse per la democrazia referendaria, mentre una parte di tale interesse potrebbe ben andare, con maggiore efficacia e possibilità di successo, alla democrazia amministrativa.

 

Ma lei come vede un futuro nel quale la democrazia diretta abbia un ruolo maggiore, addirittura dominato dalla democrazia integrale evocata da Fraccaro?

Non sono un futurologo. Le rispondo con una citazione: “Per una legge ineluttabile della storia è negato proprio ai contemporanei di riconoscere sin dai primi inizi i grandi movimenti che determinano l’epoca loro”. E’ la frase con la quale comincia il capitolo di quel grande libro che è Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo di Stefan Zweig (1941), dedicato alla nascita del nazismo.

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