Con il governo è cambiata anche la forma di governo?
Costanti e variabili in settant’anni di storia repubblicana. Con le ultime elezioni, però, cambia davvero tutto, spiega Cassese
Professor Sabino Cassese, con il governo è cambiata anche la forma di governo?
Molti dati strutturali del tipo di governo sono mutati. Ma cominciamo con l’abbandonare le “idées reçues”, le distinzioni formalistiche (forme di governo – forme di stato) e le tipologie non storicistiche (pensi che nessuna delle nove forme di governo, con varianti, identificate da Costantino Mortati nel 1962, nelle sue “Istituzioni di diritto pubblico” e neppure nessuno dei sei tipi individuati da Leopoldo Elia nel 1970 nella sua voce “Governo” della Enciclopedia del diritto sarebbe oggi applicabile al governo odierno). Evitiamo, quindi, tipologie astratte.
Bene, storicizziamo. Come è cambiata nel corso del settantennio la forma di governo?
Vediamo innanzitutto le costanti, poi le variabili. La prima costante è il ruolo svolto dal presidente della Repubblica. Contrariamente alla “vulgata”, un ruolo attivo in campo politico, ben diverso da quello di garante che gli viene assegnato dalla retorica costituzionalistica. Naturalmente, attivo in modo diverso a seconda le persone, chi con maggiore discrezione, chi in modo più plateale; chi con maggiore efficacia, chi con minore impatto. Anche la retorica del garante, poi, non è da sottovalutare, perché è servita a tenere lontano dai riflettori questa importante azione politica. I “Diari” di Antonio Maccanico, di cui è uscito anche il secondo volume, edito dal Mulino a cura di Paolo Soddu (questo si riferisce anche ai due anni in cui Maccanico è stato segretario generale del Quirinale, con Cossiga presidente, mentre il volume precedente si riferisce al settennato di Pertini) e la ricerca diretta da Giuseppe Galasso, da Alberto Melloni e da me sui presidenti, dal primo all’ultimo (si tratta di due ponderosi volumi, anche essi editi dal Mulino nel 2018) dimostrano la mia conclusione.
Altre costanti del settantennio?
Il continuo rafforzamento del centro del governo, la presidenza del Consiglio. Mussolini, capo del governo dal 1922 al 1943, con la parentesi Federzoni del 1924-1925), non aveva una sede separata dal ministero dell’Interno. Fino al secondo governo De Gasperi (il primo della Repubblica) il presidente del Consiglio era ministro dell’Interno e la stessa sede della presidenza del Consiglio era al Viminale fino al 1961. Poi c’è stato il distacco, il continuo, progressivo rafforzamento, codificato da due leggi, del 1988 e del 1999, fino al gonfiamento con l’accollo alla presidenza del Consiglio di compiti spuri di vario genere. Pubblicai nel 1980 un libro intitolato “Esiste un governo in Italia?” (edito a Roma da Officina), nel quale cercavo di documentare una opinione opposta a quella del “non governo” in Italia.
Veniamo alle variabili.
La prima fase quella definita da T. J. Pempel dell’“uncommon democracy” (il suo libro “Uncommon Democracies. The One Party Dominant Regimes”, Cornell University Press, 1990, si riferisce a più specie, incluse quella italiana e quella giapponese) è caratterizzata da un partito sempre al governo, che fa da cerniera, da assenza di alternanza (cosiddetta conventio ad excludendum) e da una forte instabilità governativa, funzionale al partito-cerniera che così conserva la possibilità di “governare il governo”. Sempre funzionale a questo meccanismo è la forte stabilità dell’alta burocrazia e l’uso di partecipazioni statali e banche come strutture di sottogoverno.
Questa finisce con il 1992-1994.
Infatti, termina in quegli anni l’esperienza della Democrazia cristiana. Escono di scena i partiti protagonisti della politica e dei governi fino allora. Senza il partito-cerniera, si allunga la durata dei governi (quelli Berlusconi II e IV, Renzi e Prodi I sono tra i più lunghi della storia repubblicana), compare l’alternanza, muta il sistema della stabilità dell’alta burocrazia (il meccanismo delle spoglie serve quasi a compensare la sparizione delle partecipazioni statali e il trasferimento in mani private delle banche). La dialettica maggioranza-minoranza, con l’alternanza, diventa reale. Inizia, però, anche la liquefazione dei partiti, che è il cambiamento più importante, sul quale bisogna tornare.
Viene poi il 2018.
Nuovo cambiamento dei protagonisti. Passano sullo sfondo della scena i protagonisti del quarto di secolo precedente (Forza Italia e Partito democratico) e si verifica una inedita combinazione di due forze politiche minoritarie, mentre le opposizioni, per ragioni varie, diventano afone (Forza Italia, perché associata alla Lega in sede regionale e locale, il Partito democratico perché frammentato e senza leader). Si verifica una inedita situazione, quella di una maggioranza senza opposizione. Quindi si ritorna indietro, sia rispetto al quarto di secolo precedente (quando c’erano centrodestra e centrosinistra), sia rispetto al cinquantennio precedente (quando c’era la conventio ad excludendum). Essendo il nuovo governo composto di outsider appena arrivati, la sua prima preoccupazione è stata quella di liberare posti di organizzazioni dipendenti e serventi, per nominare uomini di propria fiducia o comunque per fidelizzare quelli rimasti.
Torniamo all’argomento della forma partito, al quale ha fatto un riferimento.
La Repubblica si era retta sulla forma partito. Al partito erano delegati la formazione e selezione della classe politica e la gestione del governo. I partiti dell’800 erano partiti-movimento. Quelli del Secondo dopoguerra erano partiti-organizzazione, con una forte ed estesa base (il numero degli iscritti ai partiti, in un’Italia con circa 50 milioni di abitanti, era superiore a 4 milioni). I partiti erano affidatari delle scelte, ma erano anche controllati dagli iscritti, che davano il consenso. Erano governati dall’alto, ma anche controllati dal basso. Questa situazione è stata studiata dai sociologi, Alessandro Pizzorno e Giordano Sivini. Durante il quarto di secolo passato (1993-2018), i partiti diventano mere organizzazioni del seguito elettorale. Quindi, da organismi della società diventano organi dello stato. Oggi la Lega è un mero seguito di un leader. Il M5s un ristretto numero di iscritti certificati (120 mila, di cui solo un quarto di votanti per la scelta dei candidati, pochissimi se messi a raffronto dei 10 milioni di suffragi) che approvano le proposte loro fatte (Di Maio è stato candidato avendo ottenuto 490 voti).
L’instabilità governativa, non è anch’essa una costante?
Certo, anche nel quarto di secolo dell’alternanza i governi sono durati poco, se comparati ai governi tedeschi (anche se più che nel cinquantennio precedente). Ma bisogna distinguere il valore dell’instabilità quando essa era compensata (e voluta) dal partito-cerniera e dalla stabilità dell’alta funzione pubblica (compresi i gabinetti ministeriali), dall’instabilità del periodo successivo. E bisogna anche distinguere l’instabilità del periodo fino alla fine del secolo scorso e quella successiva a Maastricht, quando, con lo sviluppo dell’Unione europea intergovernativa, l’instabilità dei governi italiani è diventata più visibile (i nostri rappresentanti nel Consiglio europeo cambiano continuamente, a differenza di quelli di altri paesi) e, quindi, l’instabilità è diventata una palla al piede dell’Italia.