Ma che cosa aspetta Grasso a barricarsi contro l'imam boldriniano?

Redazione

    Al direttore - Assegnare la medaglia d’oro al valore militare alla Brigata ebraica: questo prevede una legge presentata alla Camera da alcuni parlamentari (Lia Quartapelle, Fabrizio Cicchitto e Emanuele Fiano). Una iniziativa che ha un peso enorme per il momento in cui nasce e perché ripara un’incredibile amnesia della coscienza nazionale. Una medaglia che ci ricollega alle radici di Israele e della ragione sua e nostra perché esista. Furono 30.000 i sionisti che – senza alcun obbligo di fare il militare – partirono volontari dalla Palestina sotto mandato inglese per combattere in Europa e dare corpo alla parola d’ordine di Chaim Weizmann: “Israele dichiara guerra al nazi-fascismo”. In quei giorni, invece, il Gran Muftì di Gerusalemme siglava il patto con Hitler e organizzava le SS bosniache. 5.000 volontari sionisti, inquadrati nella Brigata ebraica dell’esercito inglese, sbarcarono a Brindisi nell’ottobre del ’44, combatterono sotto la Stella di Davide lungo la Linea Gotica e poi su, su, liberarono Ravenna (45 morti) e si fermarono a Tarvisio. Molti poi tornarono in Israele per combattere gli eserciti arabi comandati dal nazista Gran Muftì di Gerusalemme. Storia nota, ma occultata in un voluto oblio, tanto che ogni anno nei cortei per il 25 aprile, a Milano, idioti vari della estrema sinistra insultano e assaltano i superstiti della Brigata ebraica che sfilano, partigiani israeliani tra i partigiani italiani. E’ ora giusto, indispensabile, che questa legge sia iscritta nel calendario (non sarà facile) e sia approvata, perché questa medaglia sigilla un patto d’onore, civiltà e coraggio che lega la nostra democrazia a Israele.

    Carlo Panella

     

    Al direttore - Rispondo con garbo a Mario Sechi. Perché il garbo si addice all’ironia, all’intelligenza, alla bella scrittura che scorre in tutto il suo articolo. Due brevi premesse.

    1) Che sia precipitata nell’oblio la mia cosiddetta paternità di Marino, questo davvero non mi risulta; anzi mi sconcerta. Sono innumerevoli i commentatori, i politici e i giornalisti che lo ricordano in continuazione. E poi: non c’è persona da me incontrata anche per caso, che non mi dica, qualche volta con sguardo pietoso: “Va bene tutto; ma Marino!”. Dunque tutti sanno del ruolo che ho svolto. E io ho assunto le mie responsabilità. Non ho mai negato nulla. Solo una volta mi sono permesso di dire che non ero solo nella scelta e che non vi è stata alcuna imposizione; in quanto Marino ha stravinto le primarie del centrosinistra e, soprattutto, ha stravinto le elezioni, con un consenso del 63,93 per cento dei romani. Quindi sono sicuramente pazzo, forse è pazzo Marino. Ma, in ogni caso, siamo dei pazzi democratici. L’affermazione di Linda Lanzillotta apparsa sul Giorno-Resto del Carlino, secondo la quale sarebbe stata una vecchia nomenclatura a determinare la candidatura del sindaco, è, dunque, del tutto priva di fondamento; forse dettata da un impeto polemico “giovanilistico” di chi ininterrottamente da quaranta anni gestisce postazioni di potere burocratico e politico, mai giustificato da un solo voto di preferenza.

    2) Non entro in considerazioni politiche generali sulla fase che ha vissuto negli ultimi anni Roma, inclusa l’esperienza di Marino. Rischierei in questi giorni di determinare altra confusione e condizionare malamente i protagonisti della direzione sul campo del Pd e dell’amministrazione comunale. Ecco il motivo di una certa prudenza nel parlare. Come ho sempre fatto, tra qualche tempo e in modo pacato e ragionato, non mancherò di fornire il mio contributo. Una cosa, però, la voglio dire subito: mi pare terribilmente “cattivo” e sproporzionato l’attacco anche personale che il sindaco dimissionario sta subendo. C’è qualcosa che va oltre la politica. In molti, forse, si può notare una sorta di rabbia e di odio persino antropologico contro una personalità comunque diversa, fuori dagli schemi, imprevedibile, solitaria, colta, più precisamente sapiente, indifferente ai sentimenti, piegati a una razionalità un po’ astratta. La conclusione della sua esperienza è comunque traumatica. Quindi, errori ne ha commessi. Ma egli paga anche aspetti del suo carattere che fanno a pugni con un senso comune accomodante e volgare diffuso nella città. E che la sinistra migliore ha sempre cercato di combattere. Questo surplus di veleno, lo trovo molto fastidioso e ingiusto e suscita in me solidarietà umana e rispetto. Ma poi, tanta violenza contro Marino, incappato nella storia degli scontrini ma anche protagonista di battaglie coraggiose, e tanta indulgenza o non curanza per decine di farabutti che in molti casi restano tranquillamente ai loro posti?

    I conti non tornano. E sarebbe meglio restare al bilancio della sua azione amministrativa, su cui si possono dare anche legittimamente i giudizi più aspri. Detto questo, veniamo con poche parole al merito. Come sono andate le cose che hanno portato alla candidatura di Marino? Marino l’ho conosciuto prima delle elezioni per il Parlamento del 2006. Ero presidente dell’Auditorium e lì mi venne a trovare, mandatomi da D’Alema. Ero stato indicato come capolista al Senato e Marino doveva essere candidato come insigne rappresentante della società civile, chirurgo molto noto che aveva lavorato in America. Fu, dopo, un bravo senatore. Tra noi non nacque mai una amicizia personale; si stabilì, invece, una reciproca stima politica. Fatto sta, che alle primarie per il segretario nazionale del Pd, dopo le “sciagurate” dimissioni di Veltroni e la mia rinuncia a ogni incarico politico e istituzionale, non da solo, proposi Marino, in competizione con altri candidati che secondo me si erano allontanati dall’ispirazione iniziale del Pd, a cui tanto aveva lavorato. Il risultato fu discreto, ma soprattutto prese allora avvio la riflessione su “campo democratico”, il mio progetto politico di cui parla Sechi. Dopo quelle primarie per lunghi anni ho vissuto una totale solitudine. Ho scritto libri e mi sono occupato di cinema in Asia. Sono stato letteralmente esiliato dal gruppo dirigente nazionale di Bersani e da quello romano, che vide affermarsi una generazione nuova in netta polemica con il modello Roma, il sottoscritto e Veltroni.

    Perché venni ricoinvolto sulla scelta del sindaco di Roma? Perché, dopo la decisione di mandare Zingaretti alla regione (con il suo totale consenso e che io condivisi, anche se con preoccupazione) si aprì un vuoto nella battaglia per il Campidoglio e si chiese anche il mio aiuto per risolvere il difficile passaggio. Per settimane girarono nomi, e non si decise nulla. Non mi fissai, come qualcuno sostiene, su Marino. Di fronte alla indisponibilità di altre candidature naturali e forti (Andrea Riccardi, Fabrizio Barca, Enrico Gasbarra, etc., anche da me personalmente sollecitate) sostenni che Marino, tra quelle rimaste in campo, era la più competitiva, e per molti aspetti politicamente la più adatta. Avevamo allora il terrore del voto ai 5 stelle e soprattutto per me, era essenziale marcare una discontinuità non solo nei confronti di Alemanno, ma del nostro consociativismo in Campidoglio. Resta il fatto che parlai sempre con rispetto anche degli altri concorrenti: perché ritenevo Gentiloni sicuramente il più forte da un punto di vista politico e amministrativo e Sassoli una persona intelligente e capace. Giudizi che si sono ulteriormente rafforzati negli ultimi tempi, osservando il lavoro di Gentiloni come ministro degli Esteri e avendo avuto la possibilità al Parlamento europeo di conoscere meglio le qualità, anche umane, di Sassoli. Il punto fu la mia convinzione che Marino avesse più chance elettorali. Fui certamente influenzato dalla paura di ripetere una sorpresa negativa come fu la vittoria inattesa di Alemanno. Tutto qui. La storia poi è nota. Il trionfo elettorale e la rovinosa caduta. Ho sbagliato? Ognuno tragga le sue conclusioni. Ho creduto in Marino, ho spiegato il perché; mi assumo la mia parte di responsabilità per quella scelta. E per le sue conseguenze. Credo, però, sia giusto fare un bilancio, tra qualche tempo, più equilibrato. Tenendo, comunque, conto della tempesta che il sindaco ha dovuto attraversare con Mafia Capitale.

    Dopo la sua elezione, come avevo da subito dichiarato, non sono più minimamente intervenuto in alcuna scelta amministrativa e in qualsivoglia nomina di governo o di azienda. Non sono stato mai in Campidoglio. Ho parlato con il sindaco, in più di due anni, tre o quattro volte a casa mia, quando egli ha avvertito l’esigenza di un consiglio. Qualche volta ha tenuto conto di ciò che gli dicevo, qualche volta no. Dopo Mafia Capitale, gli ho consigliato pubblicamente di dimettersi per poi ripresentarsi. Sarebbe stato lui a mandare a casa un sistema corrotto e anche a evitare uno stillicidio drammatico per la città. Non sono stato ascoltato. Ho pagato i miei prezzi e non me ne lamento; perché pago anche il maledetto vizio di amare la politica al punto di dire sempre la mia, anche quando il silenzio paludato o furbesco sarebbe più consigliabile per se stessi. Sul futuro di Roma ho le mie idee, ma non le dico nemmeno sotto tortura perché sennò ricomincia tutto daccapo; ho già dato a questa città.

    Ci sono da tempo altri protagonisti che hanno il diritto e il dovere di esporsi. Lo fa Renzi ogni giorno. Lo ha fatto Orfini in questi mesi, con coerenza e coraggio. Lo ha fatto Morassut, denunciando con me, da anni, e prima di tutti, il degrado correntizio del Pd dopo il 2008, che ha portato alla distruzione una organizzazione gloriosa ed esemplare. Si ricominci da qui. Dal buon governo della regione e dalle tante energie disponibili, ma rimaste tremendamente sole.
    Goffredo Bettini

     

    La sua lettera è interessante, caro Bettini, ma al fondo il problema resta: aver scommesso su Marino non è solo un errore politico, a nostro avviso, ma sotto molti punti di vista è stato anche un tradimento culturale di ciò che fu nel passato il modello Roma. Marino è stato un sindaco irresponsabile – nel senso che nulla di quello che succedeva in città era responsabilità sua, era sempre colpa di qualcun altro, signora mia – e sarebbe stato opportuno riconoscerlo per tempo. E questo, per lei, che in quel ruolo lo ha inventato, vale ancora di più. Deliziosa la malizia su D’Alema. A presto, grazie.

     

    Al direttore - Su Repubblica Natalia Aspesi definisce James Bond uno “zitellone”. Essendo io una appassionata del genere, figo e zitello, mi permetto di correggere l’Altissima: Bond non è zitello, è vedovo. Il fatto è tragico. Nel 1969 sposa Tracy di Vicenzo che viene uccisa dalla Spectre il giorno stesso delle nozze. Una svista può capitare a tutti. Però a differenza della Aspesi che in un articolo ebbe a paragonarmi a una cavalla per criticare il “Siamo tutti puttane” (pur ammettendo candidamente di non averne letto una riga), io mi astengo da similitudini animalesche e professo infinita stima per l’esperienza altrui, accumulata in numerosissimi anni di onorata carriera. Alle spalle.

    Annalisa Chirico