Legge, morale, Casaleggio. Proposta per regolare le lobby

Redazione

    Al direttore - Leggo che molti politici e molti commentatori stanno raccontando in queste ore ciò che ha significato Casaleggio per l’Italia lasciandosi un po’ andare. Aldo Cazzullo, sul sito del Corriere, dice che Casaleggio “ha davvero contribuito a cambiare la storia d’Italia”. Michele Emiliano, governatore della Puglia, dice che Casaleggio è stata la coscienza civile dell'Italia. Addirittura?
    Sebino Caldarola

     

    La coscienza dell’Italia ci sta. Aggiungerei, per onestà, che Casaleggio è stato la coscienza di un’Italia non sempre civile. Un abbraccio da parte del Foglio ai suoi familiari.

     

    Al direttore - Dove ha trovato, un esimio giurista come Paolo Grossi, neo presidente della Consulta, una norma che obblighi gli elettori a votare nei referendum (come in ogni altra elezione)? Nell’immediato dopoguerra, una legge stabiliva che si scrivesse “non ha votato’’ sulla fedina penale di coloro che non avessero esercitato il diritto di elettorato attivo. Questa disposizione venne abrogata perché ritenuta contraria alle fondamentali  libertà del cittadino. Perché, allora, Grassi ha voluto esternare una posizione che, inevitabilmente, porta acqua al mulino dei No Triv? Anche la Corte Costituzionale non si accontenta più di essere il “giudice delle leggi’’, ma pretende di orientare il comportamento e le scelte degli italiani?
    Giuliano Cazzola

     

    E’ storia antica, purtroppo: il giudice si deve occupare di far rispettare la legge e non dovrebbe permettersi di trasformare in legge la sua morale.

     

    Al direttore - Che sia più che giusta l’autocritica che farebbe la Vigilanza unica sull’effetto “stress test”, come sottolinea l’articolo del Foglio del 12 aprile riguardante la promozione, da parte del governo, del veicolo “salva-banche”, non vi è dubbio. La tesi che alcuni sostengono secondo la quale il rigorismo di Francoforte è valso a fare adottare questa misura straordinaria equivale a dire che va bene danneggiare perché in tal modo si dovrà necessariamente ricostruire e la ricostruzione sarà la prova che si è fatto bene a provocare danni. Ovviamente, accanto all’ossessione costante delle dotazioni aggiuntive di capitale – il verbo prevalente, e rassicurante per i burocrati controllanti, pronunciato dalla Vigilanza europea – vi sono i guasti da rimediare di una crisi dell’economia di sette anni ribaltatasi sulle banche e delle vicende di “mala gestio”. Ma il raffronto che alcuni fanno con i vincoli europei in materia di conti pubblici, che avrebbero indotto a comportamenti virtuosi così come farebbero le prescrizioni della Vigilanza, è infondato sia perché gli effetti dei vincoli in questione sono tutt’altro che apprezzabili, sia perché il rigorismo vigilante ha concorso finora alla causazione di problemi. Con i più cordiali saluti.
    Angelo De Mattia

     

    Al direttore - Che palle questa ennesima discussione sulle lobby, eterno emblema e foglia di fico dei presunti mali italiani. E che palle le iniziative per regolamentarne l’attività che poi falliscono miseramente, salvo partorire, in risposta a periodiche emergenze, abomini legislativi come il “traffico di influenze illecite”. Il problema, sia chiaro, non è dei lobbisti veri: da tempo abbiamo fatto il callo ai titoli di giornale che descrivono “le lobby” come fonte primaria dei disastri nazionali, e il lavoro pulito non manca ai bravi professionisti. Il punto è un altro, e prima o poi dovrà venir fuori. E’ proprio sbagliato l’obiettivo di chi pensa di irreggimentare, ingabbiare, demonizzare, punire le dannate lobby, come intendono fare paleo e neocensori parlamentari. Bisogna fare il contrario: aprire il sistema a una rinnovata ed efficace rappresentanza degli interessi, una volta saltata quella vecchia, per motivi più che noti. Nel vecchio mondo la lobby era appannaggio di partiti, sindacati, associazioni datoriali e di categoria. In quel circolo chiuso si componevano i conflitti, si dettavano le priorità e si organizzavano le gerarchie degli interessi. Con i media schierati a fare da pura cassa di risonanza. E le truppe pronte a intervenire, in casi di necessità. Era semplice, il piccolo mondo antico del Novecento. Oggi le cose sono cambiate. L’universo della rappresentanza è meravigliosamente frazionato. I partiti sono personali, i sindacati pensionati, la Confindustria ininfluente, e il tavolone verde di Palazzo Chigi, dove le corporazioni più loffie vivevano il loro quarto d’ora di notorietà, è (definitivamente?) messo in soffitta. Oggi ognuno ambisce a rappresentarsi da sé. La grande azienda, con il suo solido responsabile delle relazioni istituzionali. L’agenzia di lobbying, dove professionisti di valore si muovono unicamente nell’interesse dei clienti e non del loro datore di lavoro. Gli “abusivi”, quelli che non fanno lobby per professione: presidiano un interesse, lo intermediano e ne ricavano utili, lavorando “a percentuale”, spesso bluffando, millantando conoscenze e aderenze. E poi i media, che fanno lobby in proprio. E la rete, dove gli interessi esplodono in una miriade di ingovernabili frammenti. Nel mondo nuovo si gioca un’altra partita, dove tutto è lobby, possibilità, libertà e potere di espressione, comunicazione, condivisione. Lobby è postare, twittare e ritwittare, intercettare (ops) gli influencer, creare reti, costruire relazioni. Tutte attività difficilmente “recintabili”, cui ognuno può tranquillamente sfuggire. E ha facoltà di farlo. Se invece entriamo nei sacri confini delle istituzioni, e decidiamo di darci delle regole, allora bisogna che la regolamentazione sia sexy, altro che multe, divieti e misure coercitive. Registrarsi come lobbisti deve essere un label, un marchio di qualità. E chi ha un’istanza da rappresentare deve trovare conveniente affidare la sua pratica a un “registrato”. Si può fare con chiari meccanismi di premialità. Chi si registra può telefonare a un ministro e poi a un suo cliente. Tutto normale. Trasparente, certificato e garantito. Il registrato partecipa agli approfondimenti tecnici, ha a disposizione i testi dei provvedimenti, le bozze dei documenti. Dopo che li hanno avuti i politici, prima che diventino pubblici. Il registrato accede, con un tesserino personalizzato e riconoscibile, nei palazzi delle istituzioni, e ogni volta che usa il tesserino dichiara cosa è entrato a fare e perché. La registrazione contempla la dichiarazione degli interessi che si sostengono (in linea con normative sulla privacy e con le clausole di salvaguardia presenti nei contratti e nei regolamenti aziendali). Su queste basi si può costruire un vero patto di reciprocità: i lobbisti (e i loro clienti) consentono che si acceda al loro lavoro; le istituzioni consentono agli interessi e ai lobbisti di accedere al proprio. Con modalità certe e in tempo reale, con obbligo di consultazione, di esame e di risposta sui singoli dossier. I professionisti della lobby sono pronti per questa sfida: lo dico perché ne conosco tanti bravi e capaci. Le istituzioni non ancora. Per questo continuano a diffondere il timor panico delle “lobby”.
    Claudio Velardi