I critici della Rai e la nuova pazzotica idea di libertà di stampa

Redazione

    Al direttore - I difensori della libertà di stampa, gli avversari della censura, gli scrupolosi attacchini di post-it gialli definiscono “arrogante” questa dichiarazione di Carlo Verdelli in commissione di Vigilanza Rai, dove il direttore editoriale per l’informazione del servizio pubblico è stato chiamato a rispondere (o a fare pubblico mea culpa?) della messa in onda dell’intervista di Bruno Vespa a Salvo Riina. Ecco la frase: “Non posso censurare un qualunque programma solo perché ci sono delle dichiarazioni di politici che mi chiedono di farlo”. Ma come? Anni a cercare in Rai un giornalista indipendente dalla politica, e quando lo trovano gli danno di arrogante? Satireggiava Giovenale:  “Hoc volo, sic iubeo, sit pro ratione voluntas”. Oggi la solita sinistra che ritiene la Rai cosa sua più prosaicamente si ispira al Marchese del Grillo: “Perché io so’ io e voi non siete un cazzo”.
    Ubaldo Casotto

     

    Al direttore - Ha detto sì alla riforma del Senato, ha fatto fare una figuraccia al presidente della Consulta, ha taciuto su Casaleggio: ma Giorgio Napolitano premier non si può?
    Michele Magno

     

    Al direttore - Mi rincresce. Ma di Casaleggio defunto non riesco a pensare nulla di diverso (e di migliore) rispetto a quando era in vita. Poi non crede, direttore, che i morti la pietas se la devono guadagnare da vivi?
    Giuliano Cazzola

     

    Al direttore - Per protestare contro le correnti, i veti e i controveti dentro la magistratura va in pensione il  pm Roberto Di Martino che rappresenta l’accusa al processo per la presunta frode sportiva del ct Antonio Conte. Ma i “guai” di Di Martino che si è visto rigettare dal Csm sia la richiesta di fare il capo della procura di Bergamo sia quella di diventare Avvocato generale dello stato a Brescia non derivano dal pallone. Bisogna tornare indietro di una ventina di anni quando a Brescia Di Martino indagò su Di Pietro per corruzione in atti giudiziari, il famoso caso di Chicchi Pacini Battaglia, l’uomo entrato e uscito come una meteora da Mani pulite, per ricordare le parole dell’avvocato Giuliano Spazzali nel teleprocesso a Cusani. A coordinare l’indagine sul magistrato simbolo della falsa rivoluzione di Mani pulite c’erano con Di Martino, Fabio Salamone, Francesco Piantoni e Silvio Bonfigli. Salamone si era candidato per la procura di Bergamo. Il Csm ha detto di no. Piantoni aveva chiesto di diventare procuratore aggiunto e non ce l’ha fatta. Bonfigli, confinato in procura generale a Brescia dopo anni di “esilio” in organismi internazionali, per sua fortuna non aveva chiesto nulla. E si è risparmiato un niet, perché quell’inchiesta che vedeva il buio dove tutti vedevano la luce con la notte che era scura davvero pesa ancora. Chi tocca i fili muore. Non si poteva mettere in discussione Mani pulite e infatti gli ineffabili gip  bresciani si adeguarono alla Ragion di stato, esemplificata da un comunicato dell’Anm che ai tempi per la prima volta nella sua storia difese l’indagato e non i pm. Ovviamente fu anche l’ultima. La magistratura non perdona chi canta fuori dal coro. Di Pietro viveva a scrocco degli inquisiti dal suo ufficio tra prestiti a babbo morto, telefonini, Mercedes e appartamenti, ma fu prosciolto. La categoria così difese se stessa, la sua immagine. Una sorta di legge dell’omertà, che sta nel Dna del Csm, come dimostra la recente soluzione della guerra interna alla procura di Milano, dove ha pagato solo l’anello debole Afredo Robledo trasferito a Torino, mentre non ha pagato dazio il capo Bruti Liberati che “dimenticò” per 6 mesi in un cassetto il fascicolo Sea e che dal 16 novembre è tranquillamente in pensione. Tra meno di un anno ci sarà il 25esimo compleanno di Mani pulite. L’unica celebrazione seria sarebbe quella di mettere al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano una targa con le parole intercettate di Pacini Battaglia: “Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato”. Parole che furono considerate millanterie dai giudici. In un paese in cui si celebrano processi per molto meno, e a ripetizione persino per un pelo di quella lana. Infatti siamo già praticamente al Ruby quater. Quasi come il caso Moro, insomma.
    Frank Cimini

     

    A proposito di magistratura e politica: domani sul Foglio trova tre pagine imperdibili, di Annalisa Chirico, su tutto quello che tutti vorrebbero sapere ma non hanno mai osato chiedere sui compagni di Magistratura Democratica.

     

    Al direttore - Perché dovrebbero andare a votare coloro che, come me, concordano con i propri rappresentanti al Parlamento che hanno approvato la legge favorevole alle trivelle?  Vadano coloro, e loro soltanto, che, contrari alle trivelle, vogliono raggiungere la maggioranza per annullare la maggioranza parlamentare che ha votato la legge.
    Serafino Penazzi

     

    La penso come Pier Luigi Bersani, che nel 2003, ai tempi del referendum sull’articolo 18, disse, esplicitamente, che non votare a un referendum non solo è un diritto ma è un dovere se si considera un referendum una cialtronata. “Il referendum è negativo perché sia nel caso di vittoria del sì che in quello di vittoria del no ne deriverebbero direttamente o indirettamente conseguenze non desiderabili. Nessuno obbliga ad accettare una domanda mal posta” (Bersani, 13 giugno 2003).