Più costruzione, meno rottamazione. Canne e Onu, che fare?
Al direttore - Condivido dalla prima all’ultima riga il suo editoriale di ieri. In tutte le sfide in cui Renzi è risultato – finora – vincitore, ha dovuto fare affidamento soltanto sulle proprie risorse di consumato comunicatore. Certo, è stato favorito dalle prestazioni ottocentesche dei suoi avversari interni e dei suoi nemici esterni. Ma oggi quelle risorse non sono più sufficienti a compensare la modestia culturale e politica di certi suoi collaboratori (#Ciaone). Le elezioni amministrative e il referendum sulle riforme costituzionali sono a rischio. Il presidente del Consiglio non sembra avere più lo smalto di un tempo, mentre la diffidenza nei suoi confronti si allarga a macchia d’olio anche in quei ceti che lo avevano premiato nelle urne europee. Le ragioni sono diverse, ma ne cito due che mi paiono di un qualche rilievo. La prima riguarda il mancato rinnovamento di una periferia del partito infiltrata e presidiata dal clientelismo dei micronotabili. La seconda riguarda il mantra della rottamazione, ormai declinato sempre più in termini ripetitivi e propagandistici. Ad esempio, che bisogno c’è di sbeffeggiare tutto il sindacato italiano, contrapponendolo alla figura di Sergio Marchionne? C’è un sindacato massimalista e c’è un sindacato riformista, quel sindacato che fa accordi proprio con l’amministratore delegato di Fca e che si batte per modernizzare le relazioni industriali. Perché il premier non lo valorizza, invece di regalarlo all’ostracismo sociale landiniano? Lo stesso vale per il mondo dell’impiego pubblico, spesso additato come una granitica e indistinta realtà geneticamente refrattaria a ogni cambiamento. Non è così. “Divide et impera”, si diceva una volta. Provare ad alzare la soglia dell’inclusione, e ad abbassare quella della polemica: non si tratta di resuscitare la logica nefasta della concertazione, ma di svelenire un clima da showdown, da resa dei conti, minacciando magari lo choc elettorale quando si teme di non riuscire a far passare i propri diktat. E’ una strada che non porta da nessuna parte.
Ps.: Stefano Di Michele mi mancherà molto.
Michele Magno
La rottamazione, come la ricreazione, è finita. Adesso è l’ora della costruzione.
Al direttore - Nel 1961, mentre il mondo assisteva ammirato, o preoccupato, al primo uomo nello spazio, il sovietico Yuri Alekseyevich Gagarin, prendeva parte da lontano al tentativo di sbarco americano sulla Baia dei Porci a Cuba o al processo Eichmann a Gerusalemme – e mentre gli europei vedevano finire il Piano Marshall – al Palazzo di Vetro gli stati membri delle Nazioni Unite si riunivano per adottare la Convenzione unica sulle sostanze stupefacenti e psicotrope. Non era la prima volta che le massime potenze mondiali si ritrovavano intorno a un tavolo per mettere nero su bianco le loro preoccupazioni relative alle droghe. Mezzo secolo prima della riunione di New York, un simile incontro ai vertici convocato nella capitale olandese aveva adottato la convenzione dell’Aia – il primo trattato globale di controllo dei traffici di droga. Il documento del 1912, firmato da Germania, Stati Uniti, Cina, Francia, Regno Unito, Italia, Giappone, Paesi Bassi, Persia, Portogallo, Russia e Siam stabiliva che gli stati firmatari dovessero “compiere i loro migliori sforzi per controllare, o per incitare al controllo di tutte le persone che fabbrichino, importino, vendano, distribuiscano e esportino morfina, cocaina, e loro derivati, così come i rispettivi locali dove queste persone esercitino tale industria o commercio”. All’indomani della Grande guerra, la Convenzione dell’Aia ottenne validità mondiale venendo incorporata nel trattato di pace di Versailles. Anni prima che Einstein sviluppasse la sua teoria della relatività, la cosiddetta Comunità internazionale, senza alcuna motivazione medico-scientifica, prendeva un “solenne impegno” per il bene dell’umanità che per oltre 100 anni verrà ripetuto dalle Nazioni Unite e dalle cancellerie di tutti quei paesi che avrebbero adottato e ratificato le altre due convenzioni delle Nazioni Unite nel 1971 e 1988. Per quanto nei tre documenti dell’Onu non si preveda la proibizione di produzione, consumo o commercio delle piante e dei loro derivati inclusi nelle varie tabelle, l’interpretazione prevalente degli stati membri delle Nazioni Unite è sempre stata quella di affidare al diritto penale il controllo delle coltivazioni, il contrasto all’uso personale e l’interdizione manu militari dei traffici delle sostanze dal sud al nord del mondo. Per oltre mezzo secolo, le tre Convenzioni hanno ispirato leggi e politiche per “controllare le droghe” senza prevedere sanzioni per chi non le rispetta né un meccanismo che ne consenta una revisione che non sia consensuale. Malgrado non passi anno in cui il Rapporto mondiale sulle droghe prodotto dall’Ufficio delle Nazioni Unite per la droga e il crimine non certifichi l’aumento della penetrazione degli stupefacenti in ogni dove, non si vede all’orizzonte l’avvio di un processo di valutazione dei risultati ottenuti o la minima critica del centenario impianto proibizionista. Dal 19 al 21 aprile prossimi si terrà a New York la terza sessione speciale dell’Assemblea generale dedicata al tema delle “droghe” – le altre furono nel 1990 e 1998. Una riunione dove la dichiarazione finale verrà adottata dopo un paio d’ore di dibattito, tutto può rappresentare tranne che un’occasione per prendere decisioni importanti, ponderate e condivise. Le 24 pagine del documento conclusivo, per altro già disponibili sui siti dell’Onu da metà marzo, presentano, per l’ennesima volta, un catalogo di quanto dovrebbe esser fatto per un mondo libero dall’abuso di stupefacenti senza avanzare il minimo dubbio sull’efficacia di quanto fatto fino a oggi. Negli ultimi anni, l’Organizzazione mondiale della sanità, l’Agenzia Onu sull’Aids, l’Alto Commissariato per i diritti umani, oltre che decine di ex capi di stato, hanno elaborato una serie di raccomandazioni per limitare gli impatti negativi delle politiche di controllo internazionale delle droghe sui diritti umani e la salute. La spasmodica ricerca dell’unanimità sui documenti ufficiali, ha però annacquato qualsiasi innovazione rispetto al passato. Certo, si invoca una “flessibilità interpretativa”, ma dopo 50 anni di fallimenti le risposte necessarie non possono che esser strutturali e radicali. Continuare a proclamare impegni vecchi di cento anni vuol dire candidare le Nazioni Unite all’irrilevanza. Anche in questo campo.
Marco Perduca
Interessante ma non mi ha convinto. La penso sempre, su questo punto, come Papa Francesco. La droga è un male, con il male non ci possono essere cedimenti o compromessi. Sorry.
Il Foglio sportivo - in corpore sano