Il ritorno del Sì in Italia. Mafia Capitale, where's the beef?

Redazione

    Al direttore - Il ritorno del Sì, in Italia ripartano i matrimoni.
    Giuseppe De Filippi

     

    Al direttore - “Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo”. Bertolt Brecht.
    Paolo Repetti

     

    Al direttore - Non c’è dibattito politico, confronto televisivo o intervento mediatico in cui, parlando del periodo grave e complesso che innegabilmente la città di Roma attraversa, non si individui in Mafia Capitale l’origine di tutti i mali. E’ un refrain continuo, costante, ossessivamente ripetuto da chiunque senta il dovere di dire la sua riguardo alla situazione di degrado che vive la città. Ciò che appare singolare, anche all’osservatore estraneo alla specifica vicenda giudiziaria, è che la lettura del fenomeno in chiave “mafiosa” sia il frutto di un panorama mediatico spesso alimentato dagli autorevoli contributi di alcuni magistrati che hanno condotto l’inchiesta. Il dato oggettivo e inequivocabile che si deve registrare è che – nonostante siano trascorsi due anni da quando i cittadini romani hanno dovuto fare i conti con la notizia che anche la capitale era infestata dalla mafia – a oggi nessuna decisione emessa dagli organi giudiziari è andata in tale direzione, nel senso che nessun giudice ha affermato l’esistenza a Roma di un’associazione nei termini descritti dal legislatore con l’art. 416 bis c. p., tale cioè che le persone che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva. Ma, al di là e prima ancora di ciò, l’interrogativo che ci si pone è: si tratta di un’operazione mediaticamente corretta, che giova al processo che si sta celebrando con l’impegno del tribunale e di tutte le parti, e alla decisione che dovrà chiudere il dibattimento attualmente in corso? Perché se è comprensibile e forse anche legittimo l’intento perseguito dalla stampa, che è quello di accendere i riflettori su una vicenda sulla quale l’opinione pubblica ha diritto a essere informata, non è altrettanto comprensibile che, nel fare questo, si dia voce soltanto a una parte, che, per essere tale, necessariamente non è in grado di fornire un quadro ricostruttivo completo. Che quella diffusa dai media sia una lettura parziale, d’altra parte, è dimostrato dal fatto che, in mancanza d’altro, l’elemento costantemente posto a sostegno dell’affermazione dell’esistenza a Roma di una organizzazione dai caratteri di cui all’art. 416 bis c. p. viene rinvenuto nella decisione con la quale la Cassazione il 10 aprile 2015 ha rigettato il ricorso proposto da alcuni imputati del processo in atto.
    Senza che si dica, tuttavia, che, come è invece chiaro agli addetti ai lavori, tale decisione fu emessa in relazione a una rappresentazione dei fatti basata esclusivamente sugli atti raccolti dalla procura nel corso delle indagini preliminari, atti in merito ai quali le difese non avevano ovviamente potuto fornire alcun contributo. 
    Sorprende, allo stesso modo, che mentre grande spazio è mediaticamente dedicato a mafia capitale, il dibattimento si svolge invece, purtroppo, senza eccessivo interesse da parte dei media (se si eccettua qualche sprazzo di clamore dovuto al lignaggio dei testimoni comparsi, piuttosto che alle dichiarazioni da essi rese). Ed è un vero peccato, perché diversamente la stampa avrebbe la possibilità di dare ai cittadini l’informazione più rilevante, cioè a dire che il male, forse antropologicamente nazionale, che dopo il 1992 ci si illudeva fosse stato debellato, in realtà ha sempre più attecchito e si è sempre più sviluppato, grazie anche alla vischiosità di certe procedure amministrative e alla disarmante disorganizzazione degli uffici pubblici. Se la stampa fosse più presente alle udienze di questo processo (finora più di 200), potrebbe percepire quanto l’interpretazione del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso (che già di per sé costituisce una deformazione della definizione espressa dal legislatore), in cui sembrerebbero dissolversi i confini tra mafia e corruzione, nel senso che chi corrompe non eserciterebbe violenza, ma soggiocherebbe al suo volere, attraverso una sottile forza di ricatto, il pubblico ufficiale corrotto, perché esso sarebbe sempre condizionato dalla minaccia della possibile denuncia, non ha trovato, fino a oggi, alcun riscontro nell’istruttoria dibattimentale.

    Esclusi gli autorevoli rappresentanti delle istituzioni, che hanno optato per la comoda via di uscita dell’astensione dalla deposizione, nessuno dei testimoni escussi, infatti, ha dichiarato di essere stato intimidito, minacciato o anche solo pressato per compiere un atto del suo ufficio da taluno degli esponenti dell’asserita associazione per delinquere che avrebbe operato a Roma negli anni dal 2012 al 2014.
    Eppure i media, supportati anche da interviste agli stessi magistrati che hanno condotto le indagini, continuano a sostenere assiomaticamente l’esistenza di un’associazione mafiosa, senza mai dare spazio alle voci delle difese, con gravi ricadute sulla serenità dell’ambiente in cui il processo si sta celebrando.
    In questo clima, infatti, non solo c’è una totale deformazione delle condizioni di parità tra accusa e difesa; non solo vi è una alterazione della presunzione di innocenza da cui sono assistiti tutti gli imputati; non solo accade che testimoni, particolarmente qualificati, che hanno dichiarato di non aver rinvenuto tracce di infiltrazioni mafiose a Roma, sono stati accusati di voler insabbiare l’inchiesta; non solo taluni imputati, che hanno cercato di ribellarsi a questa morsa, facendo sentire la loro voce attraverso dichiarazioni spontanee, sono stati accusati di esercitare intimidazioni sul tribunale. 
    C’è anche, e soprattutto, il costante e odioso atteggiamento dell’essere garantisti a intermittenza, del sentirsi in dovere di prendere arbitrariamente le parti dell’uno o dell’altro, senza preoccuparsi di assicurare uno spazio mediatico equilibrato alle parti che nel processo si stanno confrontando al fine di consentire al giudice di accertare la verità, quasi che accertare i fatti di reato non fosse interesse condiviso anche dalle difese, pur quando chiedono il rispetto della parità con l’accusa.

    Alessandro Diddi

     

    I giornali si occupano dei processi solo quando la pubblica accusa ha qualcosa da offrire ai giornalisti. Questo accade quasi sempre nella fase delle indagini, durante la quale i bignè abbondano, come li definisce il nostro amico Piero Tony, e si possono facilmente confondere gli indizi o gli spifferi con le prove. Quando comincia il dibattimento, invece, la cronaca risulta più complicata: gli indizi spesso perdono di consistenza, le argomentazioni della difesa a volte possono persino funzionare e ciò che è stato spacciato per “prova” perde di consistenza. Non sappiamo che fine farà Mafia Capitale, anche se tutti noi registriamo ogni giorno sempre più indizi che vanno nella direzione opposta a quella ipotizzata dalla procura di Roma, ovvero che la Capitale è corrosa da un male incurabile che si chiama mafia. Ma sappiamo una cosa semplice, che la sua lettera ci fa tornare in mente. C’è una domanda chiara alla quale bisognerebbe rispondere parlando di Mafia Capitale e alla quale nessuno riesce a dare una risposta convincente: “Where’s the beef?”. Il fumo mediatico lo abbiamo visto. L’arrosto continua a non uscire dal forno.