Gentiloni conquista un altro partito. Brunetta contro Madia. I tre tenori: all'alba peeeerderò
Al direttore - Gentiloni ha portato un altro partito in maggioranza.
Giuseppe De Filippi
Ho sognato i tre tenori. Cantavano una canzone bellissima. Dilegua, o notte!/ Tramontate, stelle!/ Tramontate, stelle!/ All’alba peeeerderò!
Al direttore - “Un altro tassello: approvata la riforma PA #lavoltabuona un abbraccio agli amici gufi”, scrisse nel 2015 su Twitter l’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Sono passati poco meno di due anni e, tra sentenza della Corte costituzionale, infinite trattative sindacali, veti e controveti, di quella mirabolante riforma annunciata e riannunciata sono rimasti solo brandelli di norme scritte con i piedi che la ministra per la Pubblica amministrazione, Marianna Madia, ancora si sforza di chiamare riforma della Pa. Roba da matti. In realtà questi ultimi brandelli di norme sono solo il corrispettivo dell’accordo elettorale firmato prima del referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre tra il governo e le maggiori organizzazioni sindacali. Il referendum per Renzi e i suoi è andato male, ma le cambiali si pagano. Allora, più che di riforma possiamo parlare di controriforma. Lo slogan potrebbe sintetizzarsi con un #piùcontrattomenolegge. Tradotto: più sindacato, meno datore di lavoro (che in questo caso è lo stato).
Tutto ciò dopo la riforma fatta dal sottoscritto (durante l’ultimo governo guidato da Silvio Berlusconi) che ha drasticamente ridotto il potere dei sindacati che fino al 2008 aveva invece invaso tutte le competenze gestionali nelle pubbliche amministrazioni, concertando praticamente su tutto, con contratti integrativi che sforavano ripetutamente i tetti retributivi (si vedano ad esempio le retribuzioni medie di alcuni enti pubblici come l’Inps). In sintesi: adesso si torna indietro!
L’efficienza della Pubblica amministrazione dovrà passare attraverso le strette e indistricabili maglie sindacali.
Dalla lettura delle notizie e dei mille testi che girano si capisce che la grande riforma della Pa della ministra Madia non è altro che un gran minestrone di ingredienti che poco hanno a che fare con una visione strategica della gestione efficiente di una Pubblica amministrazione degna di questo nome. Si parla di controllo delle assenze, certificati medici, telelavoro, stabilizzazione dei precari (a danno di migliaia di idonei che hanno partecipato a un concorso pubblico) e di contratto di lavoro. Tutte cose che non hanno niente a che fare con l’efficienza, con il merito, con la premialità, con la trasparenza. La riforma Brunetta aveva introdotto le tre fasce di premi per la produttività, al fine di evitare la prassi in atto di distribuire a pioggia le risorse destinate proprio alla produttività. Le fasce hanno sempre incontrato la forte contrarietà dei sindacati che con quel meccanismo non potevano più utilizzare le risorse dei premi per incrementare la retribuzione dei dipendenti in modo uguale per tutti, premiando di fatto i fannulloni a discapito dei tanti bravi e seri impiegati. E ora la Madia per pagare la cambiale dell’accordo pre referendum è pronta, in mezzo a mille ipocrisie e contorsioni lessicali, a farle saltare. Risultato #todoscaballeros. La cosa che più scandalizza di questo atteggiamento del governo è che si tratta con i sindacati la modifica di norme e non di un contratto di lavoro. Ciò non accadeva da anni e anni. E’ vero che nell’accordo pre referendum si parlava anche di rinnovo contrattuale, ma è noto che le risorse non ci sono, e non ci sono mai state. Probabilmente anche in questo caso si firmerà una cambiale che dovrà essere pagata nel 2018 dal governo che verrà (Padoan che dice di tutto questo?). La riforma del 2008 aveva imposto una inversione di rotta sulla crescita dei salari nel pubblico, più alta di quella del settore privato, e aveva riaffidato al datore di lavoro il ruolo di conduttore della gestione nella Pubblica amministrazione, riservando al sindacato la sua legittima funzione di agente contrattuale. Tutto questo sembra si stia per azzerare. Renzi, la Madia, e a questo punto anche Gentiloni, vogliono riportare con un inaccettabile colpo di spugna le lancette indietro di dieci anni. #nonèlavoltabuona, per il nostro paese, per i bravi dipendenti pubblici, per i cittadini italiani.
Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera
Al direttore - Caro Claudio, le carte della cosiddetta “sinistra verace, autentica, originaria”, le hanno scoperte quelli di SI. Non si rendono conto, non possono rendersi conto, che dal 1917 sono passati cento anni, un secolo che il mondo, tutto, è diverso, cambiato nelle sue espressioni politiche/sociali/economiche, che il progetto di una Internazionale proletaria è fallito e che i loro strumenti culturali sono obsoleti. Chiedere alla minoranza dem o agli eventuali scissionisti di far cadere, come segno di appartenenza alla sinistra che hanno in mente loro, il governo Gentiloni, la dice lunga sul loro essere fuori tempo e fuori luogo. Patetici, velleitari, ma è la loro unica nicchia di sopravvivenza. Ne deriva che tutte le sceneggiate del Trio & Co, sono solo e unicamente, una lotta, fine a se stessa, per far fuori Renzi. Il sintomo e il segno di quanto sia stupido, imbelle, il nostro metodo di fare e praticare politica.
Moreno Lupi
Al direttore - La discussione pubblica sulle fake news ha prodotto un primo risultato politico, il ddl Gambaro, il cui scopo dichiarato è combattere la diffusione tramite internet di notizie false, con tutto ciò che ne può conseguire anche per la salute stessa della democrazia. Le norme proposte, però, non sembrano affatto idonee a centrare gli ambiziosi obiettivi dichiarati, nemmeno in parte. Ciò, in primo luogo, per la scelta assai discutibile di introdurre nuove figure di reato che, da un lato, appaiono fumose e, dall’altro, sono quasi certamente destinate a non produrre apprezzabili risultati concreti, sia per la esiguità delle pene previste per le nuove ipotesi criminose – che quindi non rientreranno tra le priorità dei pubblici ministeri, in barba alla teorica obbligatorietà dell’azione penale – sia per la difficoltà di rintracciare i responsabili dei reati, protetti dall’anonimato o da limiti territoriali alla giurisdizione penale italiana. Tale punto introduce il secondo, evidente, limite dell’impianto normativo, che prevede obblighi di registrazione, monitoraggio e intervento in capo soltanto a una parte della “filiera” delle fake news, ossia i gestori e amministratori di siti e blog. Restano fuori, però, tanto gli autori materiali, il cui anonimato rimane del tutto inalterato, quanto soprattutto i grandi aggregatori, ossia ad esempio Facebook. Con il risultato di escludere dall’impianto normativo sia chi più di tutti è responsabile di eventuali illeciti, sia chi più di tutti avrebbe i mezzi per intervenire in modo efficace. Infine non può essere taciuto che la proposta di legge appare del tutto scoordinata tanto dalla normativa speciale in tema di responsabilità degli intermediari in internet, che già oggi prevede obblighi specifici in capo a soggetti ben determinati ma qualificati in modo difforme e incoerente nel ddl, quanto dalle proposte di legge già all’esame del Parlamento in tema di diffamazione online, che affrontano in parte gli stessi temi del disegno di legge.
Stefano Previti
Al direttore - Scegliere un teatro che si chiama “Vittoria” per sancire l’ennesima sconfitta della sinistra ha un che di geniale e misterioso. Come tre polizze vita.
Valerio Gironi
Al direttore - Emiliano, Speranza dei Rossi italiani.
Michele Magno
Al direttore - Ci fu un tempo in cui si diceva che Palazzo Chigi era l’unica merchant bank in cui non si parlava inglese. Tanto che le cronache raccontarono dell’organizzazione di corsi di inglese per i componenti dello staff del presidente, il quale non solo polemizzava sovente con il leader della Cgil, Sergio Cofferati, ma faceva il verso a François Guizot dicendo agli italiani: “Arricchitevi”. Non ricordo bene chi fosse quel premier (che in seguito, e in altra veste, si interessò – nulla di male – dell’affaire Unipol-Bnl). Ma mi pare che fosse la stessa persona che oggi rimprovera al governo Renzi di aver tentato di salvare le banche. Sbaglio?
Giuliano Cazzola
Al direttore - Il 27 gennaio il presidente Trump vietava con ordine esecutivo ai cittadini di sette Stati di mettere piede sul suolo americano per 90 giorni. Cosa significa per noi europei? La giustificazione del divieto era esposta nell’atto per assiomi: l’interesse degli Usa è difendere i suoi cittadini dal terrorismo; gli immigrati provenienti da uno dei sette Stati compromettono la soddisfazione del bisogno di sicurezza, quindi agli immigrati è vietato entrare in territorio americano. L’ordine, sospeso il 3 febbraio su ricorso di due Stati membri – Washington e Minnesota – ha visto confermata la sua temporanea inefficacia dalla Corte di Appello federale: al momento in cui si scrive l’atto quindi, è stato disapplicato in tutta la federazione. Quale illegittimità gli Stati ricorrenti contestavano? Adducevano che il divieto di Trump ledeva la loro prerogativa di parens patriae, concetto analogo a quello del buon padre di famiglia che si adopera per il bene dei suoi figli. Ciò perché il congelamento del flusso migratorio impedisce che lo Stato attenda al suo compito tutorio e di conseguenza inibisce ai suoi residenti di accedere ai benefici del sistema federale. Si tratta dei vantaggi tipici che l’incrociarsi di etnie, il combinare insieme talenti e il confondere ideologie religiose procurano alla vita lavorativa e di relazione di ogni persona. Quindi, qui lo Stato membro prospetta un danno irreparabile non solo alla sua missione pubblica, ma anche per l’essere costretto a subire la stasi culturale e l’arretramento economico per l’abbandono federalmente imposto della filosofia del market place of ideas. A nostro avviso questo ridurre la lite a un’aggressione di competenze lamentate da uno Stato membro avverso il governo centrale non è una conseguenza inevitabile della struttura federale degli Usa. Più semplicemente, è l’esito tecnico derivante dai requisiti richiesti dall’azione giudiziaria avanzata dagli Stati componenti del sistema federale: il suo accoglimento era condizionato alla circostanza che il danno irreparabile e l’interesse fossero riferibili agli Stati in quanto tali. Ecco spiegata la ragione per cui la questione di diritto è stata tutta incentrata sul modello di un’azione di regolamento di confini, piuttosto che prospettata nei termini dell’irrinunciabile rivendicazione dell’uguaglianza tra le persone. Proviamo a trasferire questa impostazione sul terreno europeo e ipotizziamo che l’Europa porti a compimento un processo federativo, risultato al momento escluso in specie dal vento secessionista che sta attraversando più di un paese. In tale evenienza gli Stati non dovrebbero necessariamente rivendicare una lesione delle loro sovranità per difendersi da misure discriminatorie federali analoghe all’ordine esecutivo di Trump. Riterrei invece più appropriato contestare l’illegittimità dell’atto del governo centrale per la sua contrarietà al principio di uguaglianza, la cui valenza orizzontale opererebbe tanto all’interno di uno Stato che nel rapporto tra Stato centrale e suoi membri. Con ciò si vuole dire che sarebbero attaccabili in una Corte sia l’atto statale che procedesse per valutazioni astratte di pericolosità dovute alla sola provenienza etnica che quello dal medesimo tenore dello Stato federale, cambiando tutt’al più il solo giudice al quale rivolgersi. E ciò perché la questione avrebbe il suo fuoco nel diritto di ciascuno a essere trattato in modo uguale rispetto a qualunque altro dal legislatore statale o federale. L’ordine in esame invece discrimina proprio in virtù di quel fattore che nessuna Costituzione democratica, da quella Italiana alla Carta europea dei diritti fino al XIV emendamento americano, accetta come criterio idoneo a giustificare trattamenti diversificati: chi appartiene a una specifica etnia è presuntivamente pericoloso a prescindere da qualsivoglia accertamento di indici sintomatici, come tale è destinatario di un divieto legislativo; mentre chi è estraneo alla categoria, gode di un permesso. Proprio su questi temi si discuterà in occasione della presentazione di un volume il 27 febbraio alla Biblioteca Spadolini del Senato.
Vedremo se il presidente Trump nel riscrivere l’ordine terrà conto delle pesanti censure di illegittimità costituzionale già avanzate rispetto alle prerogative federali e di quelle che si possono anticipare quanto all’osservanza dell’irrinunciabile uguaglianza.
Giovanna De Minico, docente di Diritto costituzionale all’Università Federico II