La scomparsa di Philip S.
Edizioni e/o, 150 pp., 16 euro
In un giorno di giugno del 1967 Ulrike Edschmid è svegliata dalle grida che provengono dalla strada. A Berlino, dove il Muro sovrasta le persone e le idee, ci sono manifestazioni ovunque. La polizia spara e uno studente viene ucciso. “Questo è il mondo in cui crescerà mio figlio” pensa spaventata la donna. Il ragazzo morto in strada sarà l’immagine di una generazione intera e da quel giorno nella vita di Ulrike niente sarebbe più stato come prima. Il romanzo ripercorre gli anni nervosi di una Berlino – mai così grigia e fredda – attraverso la vita di Philip S. arrivato in città con un documento di identità falso e una macchina per scrivere che, come molte altre cose, gli sopravviverà. Indossa un completo con le iniziali che non si addice alla sua età e uno sguardo che non conosce leggerezza. Philip S. è stato il grande amore di Ulrike ed è per questo che quarant’anni dopo la donna riparte da quello che le rimane, quel poco che nessuno è riuscito a distruggere, per raccontare la sua storia. Si innamorano senza giri di parole: un giorno, semplicemente, lui appende il suo cappotto su misura nell’armadio di lei, tra gli abiti di seconda mano. E’ facile costruirsi un futuro quando non ti porti addosso i segni di nessun passato. Vuole fare il regista e per questo si iscrive all’Accademia del cinema di Berlino e gira un film che conserva dentro a una scatola di latta: si chiama “Il viaggiatore solitario”. Un uomo che cammina verso il Muro. Nessuno lo capisce. Un quartetto d’archi fa da sottofondo al film, ma nella realtà c’è il Vietnam e la polizia continua a sparare. “Qual è la sua risposta a tutto questo?” gli chiedono dopo la proiezione. Lui risposte non ne ha. Gli spari lo inorridiscono, vorrebbe vivere d’arte, se solo si potesse. Poi però la rivoluzione, qualunque cosa sia, lo prende con sé, come una condanna. Chi nel 1967 a Berlino ha vent’anni deve stare da qualche parte.
Philip S. va al mercato delle pulci e si compra una giacca militare piena di tasche da riempire con le pietre. “Cominciano a spuntare parole che non sono le nostre” dice Ulrike. Parlano di proletariato, di imperialismo. E l’arte? L’arte può aspettare. Vanno a vivere in una comune insieme ad alcuni compagni, costretti anche loro a non avere un nome. Un giorno, uno di loro scrive un appunto: “Cara Ulrike, in casa, perplesso, che fare? Ma la rivoluzione va avanti”. La polizia dà loro la caccia, ormai sono diventati una coppia di terroristi, hanno sempre le tasche piene di sassi. Felici non lo saranno mai, è così difficile con la morte negli occhi. Una notte, esausti e terrorizzati, si stringono più forte che possono, come non sarebbe più successo. Lui se ne sta andando, lei non lo seguirà. Una madre ha pensieri che non arrivano oltre il proprio figlio; un uomo senza passato, invece, non si sa dove possa arrivare. Lei perde le parole, Philip S. comincia a gridare. Ha ventitré anni, ha avuto una donna e si è preso cura di suo figlio. Ora devo andare, le dice. E, come al solito, succede in un giorno qualunque, dentro il profumo dei tigli, un giorno da cui ci si sarebbe aspettati un po’ di clemenza. Dopo aver fatto promesse che non manterrà, Philip S. se ne va. In quella comune di Berlino le persone che rimangono sono poche, escono tutti lasciando le loro cose sul tavolo come a dire torno presto e invece non torneranno più. La rivoluzione sotterra ogni cosa, ma il romanzo non ha lacrime per piangere nessuno, è la vita che si sono scelti. Ulrike sgombera tutto e si lascia alle spalle Berlino e la sua ribellione nevrotica. Il passato è passato, il presente passerà. Di Philip S. conserva una foto scattata molto tempo prima su una terrazza di Roma: lui appoggia una mano sul suo vestito a fiori, non si scorge il suo viso. A volte Ulrike ha il sospetto che non sia mai esistito, eppure quarant’anni dopo è ancora la sua la storia che vale la pena raccontare.
LA SCOMPARSA DI PHILIP S.
Ulrike Edschmid
Edizioni e/o, 150 pp., 16 euro