Il ragazzo in soffitta

Redazione
Pupi Avati
Guanda, 256 pp., 16 euro

Metti un’adolescenza inquieta e un po’ goliardica a Bologna, il conflitto con i padri, una scheggia di anni Sessanta e una vena noir (come agli esordi): non è un film di Pupi Avati, è il suo primo romanzo. Un bel debutto, proprio nella sua dimensione letteraria. “Mi chiamo Berardo Rossi, detto Dedo, e sono un ragazzo imperterrito. Me l’ha detto alle medie la professoressa di chimica la terza volta che non mi sono fatto interrogare. Da quella volta essere imperterrito mi è piaciuto, è una parola che fa capire bene che tipo sono”. Colloquiale, come qualche riga più avanti “il liceo Minghetti mi rompe i coglioni solo a dire il suo nome”. Ma abbozzare un ritratto di sé intorno a un aggettivo ha poco o nulla di cinematografico. Tanto meno se quell’aggettivo ha un colore un po’ particolare, leggermente sbiadito dal tempo, e ci consegna già di suo l’impronta di uno stile, come farebbe al cinema il volto di uno degli attori prediletti dal regista. Il liceale imperterrito, voce narrante di buona parte del romanzo, ha una madre premurosa, anche troppo, un fratello minore autistico, perso nell’ossessione di fare somme sempre più grandi (“gli voglio bene proprio perché so che non guarisce”), e un padre che è andato a vivere con l’amante, una fioraia. Negato per il latino, Dedo si ritrova in classe uno strano ragazzo che “legge il latino come leggesse Tuttosport (…), alto, grosso, occhi sbiaditi, capelli gialli divisi dalla riga (…), una maglia che gli tira e una cravatta con Michael Jackson che ride toccandosi il cappellino”. Si chiama Giulio Bigi ed è anche suo vicino di casa: arrivato con la madre a Bologna da Reggio Emilia, abita nella mansarda che la madre di Dedo gli ha affittato. Superata la diffidenza iniziale, tra i due ragazzi nasce una bella amicizia, che però viene messa alla prova (succede, quando i sentimenti e i legami si scontrano con i giudizi e i pregiudizi degli altri) dall’irruzione di un demone del passato nella vita di Giulio. E’ il padre che non ha mai conosciuto. Non è però, come ha sempre creduto, l’uomo ammalato, costretto dalle cure alla lontananza e all’isolamento, che ora ritorna perché in via di guarigione.

 

E’ un padre orco, assassino di due bambine, che ritorna perché a fine pena. Un’altra storia per un’altra adolescenza che s’interseca nel narrato con quella di Dedo e Giulio, pur essendo lontana nel tempo e nello spazio, ambientata com’è in una più ruvida Trieste. Quest’altro ragazzo, Samuele Menczer, è nato per un’ossessione materna: risarcimento della morte della sorellina ed espiazione paterna insieme. Un’ossessione che la madre continua a coltivare su Samuele bambino, chiamato a diventare un grande musicista per ripagarla del dolore di quella morte. Samuele, malfatto, con le gambe troppo corte, l’asseconda, ma lo studio matto riesce a mascherare solo a tratti il suo troppo debole talento. Si sente incompreso, arriva comunque a un passo dal traguardo – il posto in orchestra, il riconoscimento professionale – e proprio lì cade miseramente. E ancora senza il conforto della donna, sposata e più grande di lui, di cui è da sempre innamorato e che è diventata subito un’altra sua ossessione. Comunque l’avrà: ne sapremo di più quando le strade dei personaggi si saranno drammaticamente incrociate, con un inatteso e risolutivo svelamento finale. Racconto d’amore disperato e di dolore, romanzo di formazione che alterna l’incubo all’ironia, “Il ragazzo in soffitta” si legge come un giallo e si apprezza per la cifra stilistica (la scelta delle parole e dei nomi, gli ambienti, un giro di frase o il parlato a volte un po’ sghembo) in cui subito si riconosce l’autore. Anche nelle attenzioni che riserva, con una rapida pennellata, a una comparsa: “Il professor Suppini che quest’estate si è messo i denti ricoperti della Croazia”, o la professoressa Noè, che “con i gomiti appoggiati sul davanzale dell’aula di chimica fuma nel sole, scontenta di sé”.

 

IL RAGAZZO IN SOFFITTA
Pupi Avati
Guanda, 256 pp., 16 euro

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