La monarchia socialista
Le Lettere, 128 pp., 15 euro
Prima del fascismo, Mario Missiroli fu direttore del Resto del Carlino e del Secolo, nonché capo della redazione romana della Stampa. Duro avversario di Mussolini – che arrivò a ferire in duello – durante il Ventennio riuscì comunque a scalare le posizioni che contano nelle gerarchie della “nuova” Italia, diventando prima consigliere politico del Ras di Bologna Leandro Arpinati e poi direttore del Messaggero (senza però poter usare il proprio nome). Tornati alla democrazia, dopo la direzione del Messaggero si sarebbe seduto sulla poltrona più importante di Via Solferino e su quella di presidente della Federazione nazionale della stampa italiana. Alcuni suoi aforismi sono passati alla storia, a cominciare dalla massima secondo cui “nulla è più inedito della carta stampata”, per arrivare quella per cui “il giornalista spiega agli altri quello che neanche lui ha capito”. Missiroli era solito dire, però, anche che “un giornale non necessariamente deve garantire un utile economico, basta che offra un utile politico”. E quando gli proponevano battaglie scomode commentava: “Certo, sarebbe bello. Ma per scrivere certe cose mi ci vorrebbe un giornale”. Al ricordo di Missiroli nuoce anche un perfido ritratto che nei suoi “Incontri” gli fece un altro mostro sacro, Indro Montanelli. Questi fece una caricatura di Missiroli, dipingendolo come un logorroico voltagabbana che definiva chiunque “un liberale che s’ignora”. Perfino il boia delle Fosse Ardeatine Kappler. Eppure, proprio a Missiroli Montanelli doveva la riflessione sulla mancata riforma protestante come origine della debolezza identitaria nazionale, che fu una delle poche tesi forti della sua “Storia d’Italia”. In realtà, la teoria era stata avanzata ai primi dell’Ottocento da Simonde de Sismondi, storico ed economista svizzero, ma discendente di una nobile famiglia toscana passata al calvinismo. Una tesi che sarà ripresa proprio da Missiroli, il quale la collegherà a quella altrettanto celebre proposta da Alfredo Oriani circa il Risorgimento come conquista regia, scatenando un putiferio; polemiche che stentarono a rientrare. Un azzardo che compì nel 1913, quando aveva solo ventisette anni. E’ la prima delle sue (molte) opere, ma anche la più famosa. “Questo libro si propone di ridurre ad un solo problema – quello religioso – la storia d’Italia dal Quarantotto ai nostri giorni”, spiegava lo stesso Missiroli nella “Pregiudiziale” posta all’inizio della prima edizione. “Problema tremendo e senza uscita. Il Risorgimento poté eluderlo, non risolverlo, mediante la conquista monarchica, che si sostituì a tutte le scuole, negando tutti i sistemi e tutte le idealità”. Proprio per compensare questa debolezza, accentuata dal disastro di Adua, con Giolitti la monarchia avrebbe deciso di aprirsi al nascente movimento socialista, concedendo il suffragio universale e vari provvedimenti sociali. Ecco come si spiega il titolo paradossale.
Missiroli, però, nei confronti del socialismo mostrava diffidenza: poco dopo avrebbe infatti scritto un duro pamphlet contro la “satrapia” che, a suo giudizio, il Psi stava imponendo alla società civile emiliana. Di fronte alla debolezza dei liberali – e per compensare alla mancanza di protestantesimo – Missiroli propugnava l’assorbimento dello stato da parte della chiesa in una sorta di novella teocrazia, mettendosi dalla parte del cattolicesimo più intransigente. Come osserva Francesco Perfetti nell’Introduzione, in ciò c’era certamente una forte dose di voluta provocazione, tant’è che le posizioni successive dell’autore sarebbero state molto diverse. Ma resta un libro che, sempre secondo Perfetti, “ha avuto una influenza non secondaria nella discussione sulle caratteristiche del Risorgimento, in particolare nella linea che da Gobetti giunge fino allo Spadolini di ‘Il papato socialista’”.
LA MONARCHIA SOCIALISTA
Mario Missiroli
Le Lettere, 128 pp., 15 euro