Vita in famiglia
Einaudi, 178 pp., 19 euro
Se è vero che la maggior parte dei legami familiari e affettivi non è esente dai sensi di colpa, è anche vero che il senso di colpa è un sentimento, o meglio, un risentimento talmente forte da smuovere le montagne. E’ ciò che accade ad Ayai, giovane voce narrante di questo romanzo, che porta addosso senso di colpa e tristezza “come abiti ancora umidi di bucato”. La sua famiglia, alla fine degli anni Settanta, emigra dall’India negli Stati Uniti. Ayai e suo fratello scoprono ascensori, supermercati, acqua calda, corrente e televisione che trasmette dalla mattina alla sera. E proprio quando incominciano a pensare che l’America sia come in Love Boat (“Decisi che dopo il matrimonio sarei stato molto serio, e il mio silenzio avrebbe causato incomprensioni fra me e mia moglie. Avremmo litigato e poi fatto la pace e ci saremmo baciati. E sarebbe stato in costume da bagno azzurro mentre ci baciavamo”), la loro nuova vita si interrompe. Birju, il fratello maggiore, quello intelligente e più promettente negli studi, ha un grave incidente dal quale esce con danni cerebrali permanenti. In tre minuti si trasforma di nuovo la vita dell’intera famiglia. Gli anni passano e le medicine non possono fare molto: “Il fatto che non fosse cambiato nulla, che Birju continuasse a stare come stava, che noi continuassimo ad avere bisogno che lui stesse bene per stare bene a nostra volta, mi faceva sentire in trappola e lentamente stritolato”.
Sentirsi in colpa per la sofferenza di qualcuno, attribuendosene in qualche modo la responsabilità, significa mettersi al centro della vita di quella persona. Permette di deciderne il bene e il male, ma soprattutto consente di allontanare la sofferenza che si ha per se stessi, per la propria condizione umana: si può smettere di occuparsi di sé e delle proprie pene quando si soffre per gli altri. Ed è allora che, qualche volta, il senso di colpa si trasforma e spinge verso qualcosa che forse non si sarebbe fatto mai. Alessandro Piperno, scrivendo qualche anno fa sul Sole 24 Ore circa l’utilità civile del senso di colpa, raccontava con ironia che le poche cose buone che ha combinato nella vita “hanno a che fare con il senso di colpa. Non mi sarei mai laureato, non avrei vinto concorsi all’università, non avrei consegnato romanzi agli editori o articoli ai giornali (certe volte non mi sarei mai alzato dal letto), se non fossi stato pungolato dal senso di colpa”.
Così, Ayai decide di sopravvivere e per farlo trova conforto in un dio che assomiglia prima a Krishna e poi a Clark Kent in cardigan grigio (“Mi era sembrato sciocco discutere di danni cerebrali con un tizio blu che stringeva un flauto e aveva una piuma di pavone fra i capelli”). Parla con lui fino a quando trova un’altra via di fuga: la lettura, e i libri lo salveranno: “Fu allora che cominciai a pensare che ero piuttosto in gamba. Non pensavo di essere molto in gamba – solo abbastanza intelligente per cavarmela”. Tra le pagine di “Fiesta” di Ernest Hemingway comprende che il dolore della sua famiglia fa parte di una storia. La prende, la usa e la scrive, anzi la riscrive. In India, quando gli eunuchi si presentano sulla porta di casa per chiedere soldi, si tolgono i vestiti per far capire che andranno fino in fondo. E così il protagonista del libro si spoglierà e smuoverà le sue montagne: “Avevo appena finito di lavare mio fratello, di pulirgli il culo con una saponetta, mentre mia madre mi diceva che lo odiavo, che qualunque cosa facessi per lui la facevo per senso di colpa e non per amore”. E senza vestiti le urlerà: “Perché dovrei vergognarmi?”. “Vita in famiglia” è il secondo romanzo autobiografico di Akhil Sharma ed è stato selezionato dal New York Times tra i dieci migliori libri del 2014.
VITA IN FAMIGLIA
Akhil Sharma
Einaudi, 178 pp., 19 euro