Mar Bianco
Mondadori, 286 pp., 19,50 euro
Scrivere un giallo non è facile. Scrivere un giallo non banale è impresa ardua se non impossibile. Ma Claudio Giunta è bravo, e il risultato è del livello di quei magnifici quadretti in legno realizzati dagli artigiani dell’Azerbaigian senza usare nemmeno un chiodo per fissare le mille e più parti dell’opera d’arte. Premessa d’obbligo: per un giornalista è facile identificarsi con il protagonista, un freelance che fa il giro delle redazioni con cui collabora per cercare uno spazio anche minuscolo entro cui infilarci una storiella, una notizia o un’intervista a comprimari del jet set, a esperti d’arte di secondo o terzo piano, sì da potersi pagare le bollette accumulate sul tavolo di casa. Alessandro Capace, duole dirlo, è il classico sfigato: si avvicinano i quaranta, con l’insopportabile moglie non va come avrebbe dovuto andare secondo le fantasticherie adolescenziali, un figlio vissuto più come un impaccio, il sogno di sfondare nel fantastico mondo della carta stampata è rimasto tale. Poi accade l’occasione della vita, quella che ti capita una volta sola: è estate, i talk-show morbosi del pomeriggio sono sostituiti da telenovelas ispaniche e tre italiani poco più che trentenni spariscono in un orrendo arcipelago del mar Bianco, dove una centrale elettrica lancia rimbombi che farebbero impazzire anche i sordi e il terreno diventa fanghiglia appena dal cielo si aprono le cateratte. Non proprio l’habitat ideale per una vacanza, lì con un misterioso monastero ortodosso dalle mura possenti in piena decadenza e il marchio indelebile d’essere stato luogo di detenzione, dagli zar fino alla stagione staliniana, quando i nemici del popolo – per capirne di più fa sempre bene allo spirito e alla mente rileggersi un capolavoro a caso di Vasilij Grossman – venivano mandati lì a purificarsi e cioè a morire di fame e freddo e stenti. Spariscono lì, i tre fiorentini Enrico, Fabio e Francesco. Partecipavano a una missione dell’Unesco, ma non tornano a casa. I loro posti sull’aereo rimangono vuoti, nessuno sa che fine abbiano fatto. Come caduti nell’oblio, benché nelle rispettive famiglie non è che si facciano poi troppe domande su quell’enigma. Capace lascia perdere le quattro righe lette su Wikipedia, raccatta una vecchia fiamma universitaria che ha il pregio di parlare russo (anche se è ucraina), e parte per le Solovki, dove fa amicizia con lo scemo del villaggio, il massiccio Valentin che nasconde più segreti e storie da raccontare di quanto lo stesso Capace potrebbe immaginare. C’è un pope ieratico che non la racconta giusta, uno spaccio fatiscente che serve una brodaglia fatta passare per zuppa di pesce, un alberghetto aperto “per chi si accontenta” e tanta torba, dove decenni fa venivano ammassati i morti nel gulag. Non è una storia da Poirot, l’elemento essenziale non è la ricerca del colpevole, dell’eventuale assassino o del capro espiatorio: la ricerca dei tre scomparsi si intreccia con la vita vissuta, soprattutto con il ruolo delle madri, che in questa vicenda hanno uno spazio che il lettore distratto potrebbe non cogliere appieno, come invece Giunta vorrebbe. Quattro madri diverse per quattro figli diversi, perché oltre ai tre spariti nel nulla, anche il freelance Capace finisce per interrogarsi su chi è lui e quale sia il senso del suo stare al mondo. Un giallo che fa anche da introspezione psicologica, per nulla pesante e senza – grazie al cielo – intenti didattici o moralistici. Alla fine, sobbarcati da decine di gialli che le librerie (forse per timore o imbarazzo) hanno la cura di iscrivere nella categoria dei volumi balneari, “Mar Bianco” è una boccata d’ossigeno. Trama che regge, libro scritto assai bene. E non è detto che tutti i professori universitari di letteratura italiana (Giunta lo è, a Trento) lo sappiano fare.
MAR BIANCO
Claudio Giunta
Mondadori, 286 pp., 19,50 euro