La Chiesa in uscita di Paolo VI
Tau editrice, 144 pp., 12 euro
Tutto porta a pensare che, alla fine, ebbe ragione Yves Marie Congar, quando profeticamente avvertì che “la memoria di Paolo VI sarebbe cresciuta nella memoria della Chiesa”. Amaro destino, quello cui è andato incontro il mite Giovanni Battista Montini, che Henry Kissinger incluse nella ristrettissima lista “degli uomini più sensibili e intelligenti che mai mi sia capitato di incontrare nella mia carriera diplomatica”. Amaro destino perché oggi, di Paolo VI, non si parlerebbe quasi più, se non fosse per i continui richiami che di lui fa Francesco, il cui pensiero teologico e pastorale – si potrebbe così dire – è in gran parte fondato sui pilastri piantati, quarant’anni fa, dalla Evangelii Nuntiandi, l’esortazione apostolica che metteva a fuoco l’impegno di annunciare il Vangelo “agli uomini del nostro tempo”. L’autore si sofferma sulla prima parte del pontificato, quella che va dal 1964 al 1970. Sono gli anni dei grandi viaggi internazionali, del primo Papa che prende l’aereo, del primo Pontefice che lascia la penisola italiana dai tempi di Pio VII, condotto con la forza nella Francia napoleonica. Si parte con il pellegrinaggio – spirituale ma non esente da importanti implicazioni politiche – in Terra Santa. Il Papa ci pensava da tempo, come testimonia un appunto del 21 settembre 1963, in cui affermava che “dopo lunga riflessione sembra doversi studiare positivamente se e come possibile una visita del Papa ai Luoghi santi nella Palestina”. Gli anni Sessanta sono il decennio dei nuovi equilibri geopolitici, il periodo in cui la decolonizzazione prende finalmente piede. Paolo VI ne è consapevole, comprende tra i primi le grandi opportunità e i rischi che sarebbero derivati dal riordino dell’assetto mondiale. Per la chiesa si apre una nuova fase, è chiamata a interrogarsi circa il suo ruolo nel “nuovo mondo”. Nascono equivoci: c’è chi teorizza la necessità di adeguamento ai nuovi costumi, ma Montini pensa ad altro, vola più alto, come scrive l’autore quando afferma che per Paolo VI si trattava di avvicinarsi al mondo per entrare in comunione con esso, per mostrargli una via alternativa e convertirlo: “Quando la chiesa si distingue dall’umanità non si oppone a essa, anzi si congiunge”. Decide di andare in India, a Bombay. L’occasione è data dalla partecipazione al Congresso eucaristico, ma il Papa “voleva mettersi di fronte al dramma di tutti i popoli prendendo coscienza della mondializzazione in atto e portando loro la parola del Vangelo”. E poi gli Stati Uniti e le Nazioni Unite, negli anni in cui Washington tribolava nella giungla vietnamita e l’Amministrazione Johnson si dilungava in estenuanti discussioni circa l’opportunità di invitare ufficialmente il Papa di Roma a visitare il paese. Ma se il Pontefice diplomatico ebbe a cuore la soluzione del conflitto del Vietnam, invocando dialogo e a tratti scoraggiato per una certa “difficoltà a capire il mondo d’oggi”, non meno rilevante era per lui il perenne conflitto mediorientale. Chiede la pace, spinge le parti a dialogare e per dare l’esempio volerà in Turchia, a riabbracciare l’amico Atenagora. Il clima non è quello della festa, l’opinione pubblica poco gradisce quella visita ufficiale. Annoterà Benny Lai che qui “è mancata soprattutto la folla”. Andrà nelle periferie più lontane, dall’Australia alle Filippine, fino all’Indonesia. Volerà in Africa, missionario nel continente devastato dalle guerre intestine. Metterà piede in America latina, scossa dai venti rivoluzionari che lambivano e sfidavano la chiesa stessa. Non dimenticherà l’Europa, che già dava i segni di essere ormai vinta dalla secolarizzazione. Un pellegrinaggio alla fine del quale trasse la conclusione che forse nulla, come la chiesa, è fatto per il mondo. Era il 1970. Frase quanto mai attuale.
LA CHIESA IN USCITA DI PAOLO VI
Roberto Paglialonga
Tau editrice, 144 pp., 12 euro