Una così breve distanza ci separa
Ponte alle Grazie, 350 pp., 15 euro
Ad Austin, in Texas, un incendio brucia un intero negozio. E’ il 6 dicembre 1991. Dopo aver spento le fiamme, i vigili del fuoco scoprono i cadaveri di quattro ragazze adolescenti: sono Amy Ayers, Eliza Thomas, Sarah e Jennifer Harbison. I loro corpi sono accatastati uno sopra l’altro. Sono state imbavagliate e legate con i loro vestiti. Le fiamme e l’acqua hanno cancellato quasi tutti gli indizi, ma le vittime sono state colpite alla testa e gli investigatori pensano che probabilmente siano state uccise prima dell’incendio. Le ragazze, per quella sera, avevano in programma un pigiama party. Questo caso, a oggi ancora irrisolto, ha ispirato il secondo romanzo di Scott Blackwood e rappresenta l’inizio di un’altra storia. Quella della vita di chi resta, di chi sopravvive. E’ la storia di Kate, la mamma di due delle ragazze uccise, di Jack il pompiere che per primo ha affrontato l’incendio nel negozio, di Hollis, veterano della guerra in Iraq che vive per strada nella sua macchina decorata, di Michael, il ragazzo che quella notte faceva il palo e guidava la macchina per una rapina e della giornalista Rosa Heller, reporter di “nera” per un quotidiano locale. Nel romanzo le ragazze uccise sono tre, Zadie, Elisabeth e Meredith. In una sera di autunno stanno chiudendo la gelateria in cui lavorano quando entrano due uomini con le pistole. Pochi minuti dopo il negozio è in fiamme e loro sono sul pavimento: nude, legate, assassinate. Sono loro, nelle prime pagine del libro, a raccontare, in un’unica voce, l’inizio di questa storia: “Siete venuti nel fuoco. Ci avete trovato. In tutto quel buio e fumo e acqua; un piede scalzo, brillante. Lo scarto pieno di speranza di una caviglia. Ci avete rivestito di luce. Lavato i capelli. Invece di niente abbiamo voi”. Nel legame tra i vivi e i morti che ricorda gli “Amabili resti” di Alice Sebold – nella breve distanza che li separa – vengono svelati i “modi in cui le persone erano collegate l’una all’altra nello spazio e nel tempo da qualcosa che se ne stava fuori, nascosto alla vista ma intuibile come le stelle in pieno giorno” . Come il cuore di Kate, rimasta sola senza le figlie, le pagine del libro si modellano intorno a una mancanza, “a un mai più”. Le ragazze non ruberanno baci in giro, non berranno per placarsi i nervi, non sentiranno di essere destinate a qualcosa di più grande. Il cuore della madre non perdona. E neanche Blackwood che, nei sessanta brevi capitoli del suo romanzo, tratta con dura sensibilità la vita di ogni personaggio, descrivendo la natura del dolore e di un “male che non assomiglia a niente”. E siccome la gente ha sempre bisogno di appartenere a un posto, anche se “non sempre è quello che ti aspetteresti”, il romanzo è anche la storia di una città che, a seguito degli omicidi, ha dichiarato il coprifuoco; una città in cui la gente ha paura, non fa giocare i bambini in giardino e non esce di casa la sera. Non ci sono prove, non c’è un movente, non ci sono colpevoli e non basterà trasformare la notte in giorno costruendo una luna finta con giganteschi lampioni che la illuminano. Bisognerà inventarsi un’altra storia. Anche se alcune storie non hanno una fine. Scott Blackwood, che vive a Chicago ma è cresciuto in Texas, insegna al corso di laurea in scrittura creativa della Southern Illinois University. Il suo primo romanzo del 2009, “We agreed to meet just here”, ha ricevuto numerosi premi, e nel 2001 aveva scritto la raccolta di racconti “In the Shadow of Our House”. Di lui Richard Ford ha detto “Un talento incredibile… naturale, emozionante, inevitabile”.
UNA COSI' BREVE DISTANZA CI SEPARA
Scott Blackwood
Ponte alle Grazie, 350 pp., 15 euro