Editoriali
La moda ha un grosso guaio green
Il settore ha creato attese molto alte riguardo alle produzioni sostenibili ma in pochi riescono a esaudirle. I corto circuiti
Ieri mattina, alla presentazione della nuova linea di denim sviluppata con OVS, Adriano Goldschmied, il “padrino del denim”, si è soffermato a lungo sugli escamotage di marketing che le multinazionali usano per distogliere l’attenzione del pubblico dall’impatto in-sostenibile della moda. Se quello che è un po’ il Venerabile Beda dell’esegesi modaiola si sente libero di parlare di greenwashing e il ceo di OVS Stefano Beraldo di raccontare gli sforzi dell’azienda per far quadrare il prezzo finale dei capi con l’impegno nella riduzione delle emissioni e il controllo di filiera, è perché l’Unione Europea, con la direttiva “Green claims”, due mesi fa ha fischiato l’alt sulle troppe indicazioni di “rispetto” non comprovabile per il pianeta: uno studio di due anni fa rivelava infatti che il quaranta per cento delle asserzioni ambientali fosse del tutto infondato.
La moda, secondo settore più inquinante al mondo, è stato anche il primo ad essere finito sotto la lente e Gucci, che nel 2019 aveva annunciato di essere diventato “carbon neutral”, utilizzando in parte le compensazioni della foresta pluviale di Verra, ha cancellato l’annuncio dal proprio sito, segnalando anche che non collaborerà più con South Pole, la società zurighese di consulenza sui crediti sul carbonio con cui aveva sviluppato il progetto e l’unica cosa che ci viene da dire è che il business dei cavalieri bianchi dell’ambiente mondiale meriterebbe una seria indagine. Ma visto che quando certi processi si innescano è difficile fermarli, è di ieri la notizia che il Fashion Pact, eco-Davos dei ceo della moda e del tessile molto voluta da Emmanuel Macron, meno di quattro anni dopo il debutto inizia a perdere soci: lasciano Selfridges, Stella McCartney, ma anche – benché non ufficialmente confermato – Hermès, ed è una seccatura perché soprattutto gli ultimi due hanno fatto della trasparenza l’asse portante delle proprie strategie. Il fatto è che in tutto questo tempo, e in molte riunioni, il Fashion pact non ha prodotto altro che qualche progetto pilota e indirizzi di scopo, tutte cose che vanno benissimo nella politica, ma non nell’industria.
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