Non c'è solo l'interesse economico dietro il patto tra Mosca e Riad
Un'anticipazione di Oil Magazine, in edicola dal 14 marzo in abbinata speciale con il Foglio
Anticipiamo un estratto dell’intervista al segretario generale dell’Opec, il nigeriano Mohammad Sanasi Barkindo, pubblicata nell’edizione di Oil Magazine, in edicola dal 14 marzo in abbinata speciale con il Foglio.
Ferventi avversari durante la Guerra fredda, la Russia e l’Arabia Saudita hanno unito le loro forze a novembre per far approvare il taglio storico della produzione di greggio. Una straordinaria impresa diplomatica che ha coinvolto 13 membri dell’Opec e 11 paesi non-Opec e si è consumata al di fuori dei consueti forum multilaterali. E ancora più sorprendente è il fatto che l’accordo abbia superato le nette divisioni geopolitiche tra i firmatari. La cerimonia ha messo insieme molti dei combattenti per procura che sostengono le fazioni opposte della guerra civile siriana: da un lato Russia e Iran, entrambi sostenitori del governo siriano di matrice sciita e dei suoi alleati, dall’altro l’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo, che supportano principalmente i ribelli sunniti.
Come ci sono riusciti? La risposta più diretta risiede nel semplice interesse economico. Tuttavia, archiviare questo successo come una semplice mossa finanziaria ne sminuirebbe l’importanza. Vincolare la fornitura petrolifera globale ha sempre rappresentato una questione di azione collettiva alquanto ingarbugliata, che però è diventata più complessa dai giorni in cui un cartello Opec più ristretto, o la Texas Railroad Commission, o persino la Standard Oil, potevano porre un freno ai produttori affinché mantenessero i prezzi petroliferi “ragionevoli”. L’accordo di novembre ha messo insieme non meno di due dozzine di stati, molti dei quali avversari strategici e persino acerrimi rivali. I protagonisti hanno concordato di fidarsi l’uno dell’altro abbastanza a lungo da condividere il peso di ben 1,8 milioni di barili al giorno (mbg) di tagli alla produzione in cambio della prospettiva di un incremento sproporzionato degli utili.
Questa larga intesa, di portata storica, non si sarebbe mai materializzata senza l’importante impegno da parte dei due attori principali – l’Arabia Saudita e la Russia – per trovare un terreno comune e coinvolgere altri protagonisti. Ora resta da chiedersi se la collaborazione della Russia con il Cartello petrolifero è stata solo un’impresa opportunistica studiata ad hoc o se il legame russo-saudita è destinato a restare stabile per lungo tempo ancora Da un lato, il successo dell’accordo di novembre – congegnato da due paesi che si trovano sempre più in contrasto con Washington – segnala una maggiore volontà di cooperazione tra Russia e Opec. Inoltre, l’intesa rappresenta un’opportunità senza precedenti per Mosca di creare un legame con l’Arabia Saudita, uno dei suoi più acerrimi nemici durante la Guerra fredda. Dall’altro lato, l’impegno della Russia di combattere insieme alle forze religiose sciite in Siria, compreso l’Iran e la milizia libanese Hezbollah, implica orientamenti geopolitici opposti che peserebbero a sfavore di un allineamento più stretto. L’accordo di novembre è stato raggiunto nel modo in cui solitamente vanno a finire i compromessi politici, ossia con i leader che forzano la mano e offrono bustarelle per creare coalizioni.
L’Arabia Saudita – il leader de facto dell’Opecper via della sua capacità produttiva di riserva – ha tutelato la propria posizione di figura dominante. Il regno si è assicurato il coinvolgimento delle monarchie del Golfo e degli altri membri arabi del cartello, nonché di altri paesi come l’Oman, il Sudan e il Bahrain che producono petrolio al di fuori dell’Opec. La collaborazione russa è entrata in gioco con il presidente Vladimir Putin, che intuì gli ovvi vantaggi per il proprio paese. In cambio di un taglio graduale di 300.000 barili al giorno – pari al 2,6 percento circa della sua produzione massima nel 2016, nel momento in cui i tagli raggiungeranno il picco – la Russia ha già iniziato a raccogliere i frutti di un aumento del 20 percento dei prezzi di vendita del greggio degli Urali.
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