Scrivere con le manette
E’ un virtuosismo tutto suo, scrivere con le manette. Ritmo, scelta del vocabolo. “Bavaglio sulle intercettazioni”. “Multe salate”. E l’immancabile, minaccioso, “non solo” (inteso: vedrete che ci faranno). “Carte pubbliche, ma inspiegabilmente segrete per la stampa”. Inspiegabilmente? “Non è il carcere per i giornalisti”, questo nemmeno lei, nemmeno Liana Milella, la sacerdotessa della giudiziaria di Rep., riesce a dirlo. Ma è “un bavaglio”, quello ipotizzato in commissione Giustizia della Camera dai due procuratori più importanti d’Italia, Edmondo Bruti Liberati e Giuseppe Pignatone, Milano e Roma. La loro colpa? Provare, se non a collaborare, almeno a suggerire qualcosa di utile per la legge sulle intercettazioni in via di elaborazione.
E se Renzi è il nemico (ovvio), sono però loro – i magistrati, questi ingrati – che vogliono rivoluzionare “l’equilibrio esistito finora tra magistrati e giornalisti da una parte e politica dall’altra”. Le parole sono importanti, soprattutto quando le sceglie Milella. “Equilibrio”, dice. Forse intendeva do ut des, o qualcosa di peggio, tra le toghe e la stampa. Infatti quel che la indigna, le scappa di penna, le scappa dalle manette: “Le toghe vanno per conto loro e stendono un tappeto rosso sotto i piedi di Renzi”. (Addirittura). “Si battono perché non venga toccato il loro potere di intercettare, ma buttano a mare la stampa”. E “se poi la stampa e la gente non sanno perché chi se ne importa”. A sostegno dell’utilità di pubblicare, fa anche l’esempio del Mose. Peccato che il procuratore di Venezia, Carlo Nordio, abbia ben spiegato che l’inchiesta Mose è stata fatta senza abusare delle intercettazioni, e nulla o quasi è trapelato sulle gazzette. Informarsi, prima di origliare.