Non si governa solo con 80 euro
Pubblichiamo un estratto del libro “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia che non c’è” (Rizzoli, 160 pagine, 15 euro) in cui il direttore del Foglio, Claudio Cerasa, intervista l’amministratore delegato e direttore generale di Conad Francesco Pugliese su sei argomenti: la leadership dell’Italia (che non funziona); la classe dirigente senza classe (e la ragione della scomparsa della borghesia); il lavoro che non c’è (e la riforma che forse non funzionerà); contro il piagnisteo della politica meridionalista; il nanismo dell’Italia modello Slow Food; il futuro del paese visto dai consumi di oggi, di ieri e di domani. Il libro nasce come sequel del saggio scritto nel 2014 da Claudio Cerasa sulle “Catene della sinistra” (Rizzoli). Pubblichiamo in questa pagina un estratto dell’ultimo capitolo.
“Ogni volta che risparmi cinque scellini togli a un uomo un giorno di lavoro”.
John Maynard Keynes
“Vede: si potrebbero fare diverse considerazioni su quello che è successo nell’ultimo anno in Italia, e si potrebbe rispondere a questa domanda arrivando al nocciolo della questione in modi molto diversi. Io credo però che per comprendere quale sarà il destino del nostro Paese occorra prima capire come esso è cambiato negli ultimi anni e credo che, sinceramente, il modo migliore per offrire al lettore una fotografia dell’Italia sia andare a illustrare una voce fondamentale”. Ovvero? “I consumi”. Si spieghi. “Per rispondere alla domanda sulla situzione attuale dell’Italia, oggettivamente, bisogna partire da qui. Dire che il nostro Paese non sta bene è tautologico, ma dire qual è uno dei suoi grandi problemi è forse più importante. Si tratta di un problema sia di carattere politico, sia di carattere psicologico. Spendere. Far girare la moneta. Far ripartire l’economia. Stimolare la domanda. Creare una reazione sull’offerta. Far aumentare la richiesta di un bene. Dare la possibilità di far ripartire l’occupazione. Tutto questo non succede perché gli italiani hanno fondamentalmente paura. Hanno paura del domani, e questa paura si riflette anche in una paura più grande: spendere soldi. Eppure, i soldi oggi ci sono. Tutti i dati macroeconomici ci dicono che alla fine del 2014 la propensione media al risparmio degli italiani è tornata a essere simile a quella che ogni cittadino aveva mediamente prima che cominciasse la crisi. Significa che i soldi, per gli investimenti e per i consumi, ci sono, ma nessuno o quasi è ancora intenzionato a spenderli”.
Perché? “Sembra una banalità ma a mio avviso si tratta di una delle sfide più importanti dell’attività di governo: riuscire a far sì che la propria azione abbia un impatto nella vita reale attraverso le riforme e fare in modo, contemporaneamente, che abbia un impatto sulla percezione dei cittadini, tramite l’affermazione di un disegno complessivo che possa aiutare ad aver fiducia nel futuro. Il pessimismo, oggi, si legge da alcuni dati in particolare. Dal 1996 il Paese ha visto crescere la propria ricchezza, con il pil pro capite reale passato da un valore indice 100 a 116 del 2012 e con un picco a 123 nel 2007. Da allora, però, la discesa è stata costante, complici gli effetti della crisi economica. Per contro, è in diminuzione l’indice di benessere e soddisfazione personale, passato da un valore 100 del 1996 a 82 nel 2012. Insomma: cresce la ricchezza ma aumenta anche l’insoddisfazione personale legata a reddito, occupazione, risparmi, abitazione, salute, tempo libero, vita familiare, minata oggi dal declino della fiducia di consumo che, dopo un picco nel maggio 2002, è ai minimi storici. Dal 2000 a oggi sono diminuite del 6,7 per cento le spese per alimenti, del 15 per cento quelle per abbigliamento e calzature, dell’8 per cento quelle per arredamento e manutenzione della casa, del 19 per cento quelle per i trasporti (aumentano solo le spese incomprimibili: utenze domestiche, +6,3 per cento, e medico-sanitarie, +19 per cento). Il 52 per cento delle famiglie sente di avere difficoltà a preservare i propri risparmi e quasi il 50 per cento teme di non riuscire a mantenere il proprio tenore di vita, e ciò spiega come mai quasi il 50 per cento delle famiglie progetti di moderare e di contenere le spese. Oggi, bisogna registrarlo, i dati complessivi sui consumi ci dicono dunque che quella fiducia non c’è, che i consumi non si riprendono, che l’economia di conseguenza non si rimette in moto, che il lavoro di conseguenza fa fatica a ripartire. E all’interno di questo nuovo equilibrio economico è possibile fare una fotografia precisa per capire come è cambiato, negli ultimi anni, il rapporto degli italiani con il proprio portafoglio e con la propria propensione al consumo. Vi do un dato su tutti: il 41 per cento degli italiani dichiara di destinare al risparmio il denaro disponibile dopo aver soddisfatto i bisogni essenziali. Senza capire questo, non è possibile capire quasi nulla del nostro Paese”.
Proseguiamo il discorso. “I dati sono molti e fanno impressione. Nel 2013 il 65 per cento delle famiglie ha ridotto la qualità o la quantità del cibo acquistato. Gli acquisti di prodotti alimentari nel 2013 sono diminuiti del 3 per cento dall’inizio della crisi, il 2008, e nei primi mesi del 2014 si è toccato il fondo con le famiglie che hanno detto addio alla pasta (–5 per cento), all’extravergine (–4 per cento), al pesce (–7 per cento), alla verdura fresca (–4 per cento), rispetto allo stesso periodo del 2013. In generale, la spesa degli italiani si riduce anche perché più di otto italiani su dieci (81 per cento) non buttano il cibo scaduto, una percentuale che è aumentata del 18 per cento dall’inizio del 2014: un dato drammatico”. Facciamo qualche altro esempio. “Il contesto generale è noto: a fine 2014 i consumi hanno registrato una crescita nulla, gli investimenti sono scesi dell’1 per cento, settori strategici come l’agricoltura, l’industria e le costruzioni decrescono in forma preoccupante (rispettivamente –0,1 per cento, –0,6 per cento, –1,1 per cento). In tre anni i consumi delle famiglie sono diminuiti del 10,7 per cento, abbiamo perso per strada qualcosa come 78 miliardi di euro, più o meno il valore di cinque manovre di governo, venti volte quello dell’Imu sulla prima casa. Dal periodo pre crisi a oggi abbiamo registrato un calo del 45 per cento delle spese natalizie (8,2 miliardi in sette anni), passando dai 18 miliardi di euro del 2007 ai 9,8 miliardi del 2014: il 5 per cento in meno rispetto all’anno precedente. Dal 2007 a oggi si sono persi circa 15 punti di Pil. Ogni italiano ha visto ridursi di 2.700 euro il reddito disponibile. Il 77 per cento degli italiani, rispetto al 43 per cento della media europea, dà un giudizio pessimo sulla qualità della vita nel proprio Paese. Tra il 2006 e il 2013 i prezzi complessivi dei beni si sono abbassati del 54 per cento. Il 25 per cento dei residenti nel Mezzogiorno non può permettersi un pasto proteico una volta ogni due giorni (prima della crisi erano circa la metà, il 13 per cento). Dall’inizio della recessione si è ridotta del 20 per cento la produzione industriale italiana, del 37 per cento quella delle costruzioni e del 7,2 per cento il fatturato generato dai servizi. C’è insomma un Paese che purtroppo sta cambiando e sta imponendo un nuovo regime consumistico. Quasi una nuova filosofia”.
Una nuova filosofia? “Certo: è la filosofia dello sharing, del condividere, che ha riguardato un gran numero di settori (non solo le automobili), per cui oggi si risparmia soprattutto sui vestiti, gli spostamenti, i divertimenti e in cui gli unici settori che registrano una certa continuità di entrate sono l’universo del cibo e quello dei dispositivi tecnologici: l’e-commerce, incredibilmente, solo negli ultimi dodici mesi del 2014 è aumentato del 20 per cento. Proviamo a essere più precisi, raccontiamo qualche caso concreto. Ho con me una ricerca Nielsen che credo vada la pena di essere citata. E’ una fotografia molto interessante e ci dice meglio di qualsiasi indagine sociologica come è cambiato il Paese negli ultimi anni, negli anni della crisi. In generale, ovviamente, si cerca di risparmiare qualcosa, ma i risparmi hanno una matrice e una radice diversa. Vi faccio un rapido elenco. In tutto il Paese si consuma meno carne rossa. Al Sud se ne consuma ancora meno che al Nord, il 7 per cento in meno rispetto a cinque anni fa, e ora si consuma più carne bianca, il 5 per cento in più, e ancora più prodotti che possono essere considerati dei sostitutivi della carne: le lenticchie e i fagioli freschi (+5 per cento rispetto al 2010), le uova (+ 4,4 per cento) e soprattutto la soia (il cui consumo è cresciuto del 28 per cento solo nell’ultimo anno). Stesso discorso per il latte. Il consumo del latte fresco, anche qui soprattutto al Sud, è calato del 13,7 per cento, mentre quello a lunga conservazione è calato, ma un terzo in meno di quello fresco, ovvero solo del 4,8 per cento. I prodotti take away hanno registrato un boom incredibile, soprattutto al Nord. In Lombardia i prodotti più venduti in termini assoluti sono i salumi preconfezionati, mentre gli affettati take away sono il quarantesimo prodotto più acquistato sugli scaffali dei supermercati. Milano è la capitale dei surgelati: qui si consuma il 65 per cento del mercato italiano di primi piatti congelati. La mortadella, che costa la metà del prosciutto cotto, pur essendo un prodotto del Nord viene consumata di più al Sud (la media è un acquisto di prosciutto ogni tre di mortadella). I salumi, in generale, sono stati venduti il 4 per cento in meno, mentre quelli in busta il 23,4 per cento in più. Il pesce, pur essendo prevalentemente pescato al Sud, nel Meridione è consumato per lo più sotto forma di tonno in scatola. La pasta è diventato il piatto più consumato sia al Sud (30 chilogrammi l’anno di media) sia al Nord (18 chilogrammi), mentre, per risparmiare, in molte regioni è stato sostituito da altre portate, come la polenta (in Veneto, regione dove mediamente se ne fa più uso, il consumo di pasta è arrivato a essere un terzo di quello del Meridione, 11 chilogrammi contro 30 chilogrammi). In molte categorie di consumi si sono ridotti i prodotti freschi, non solo il latte. L’acquisto del pane ci offre una buona lettura dell’Italia che cambia: negli ultimi cinque anni ne è stato acquistato l’11 per cento in meno di quello fresco e il 7,9 per cento in più di quello industriale, che dura più a lungo e difficilmente viene sprecato. Il trend si riflette anche in altri campi. Dal 2008 al 2012 l’acqua prelevata per uso potabile è cresciuta in volume superiore a quello registrato nella distribuzione dell’acqua in bottiglia: +1,6 a fronte del –5 per cento di acqua in bottiglia utilizzata per uso domestico. Specularmente, il risparmio ha fatto emergere altri dati significativi. I contenitori per la conservazione in frigo sono cresciuti del 6 per cento in sei anni. I rifiuti pro capite, dal 2008 al 2012, si sono ridotti del 7,7 per cento. Il 68 per cento degli italiani dichiara di stare attento alle porzioni così da sprecare meno cibo. Il 45 per cento, invece, afferma di cucinare con gli avanzi in frigo. Il 59 per cento ha imparato a dosare meglio gli ingredienti che utilizza per cucinare. E, più in generale, il fenomeno che ha avuto un impatto nel settore dei consumi, soprattutto per quanto riguarda la ristorazione, è che gli italiani hanno aumentato a dismisura i propri pasti in casa”.
Prevedibile, ma di quanto? “Nel corso degli ultimi due o tre anni il 65 per cento degli italiani ha diminuito il budget destinato a mangiare fuori casa, contro un ben più contenuto 31 per cento che ha dichiarato di averlo mantenuto stabile e un risicato 4 per cento che, in piena controtendenza, ha affermato di averlo incrementato. Con un mercato che si indebolisce, però, ce ne è uno che si ingrandisce, ed è quello della casa”. In che senso? Quasi due italiani su tre hanno costantemente ridotto le spese per pasti fuori casa negli ultimi cinque anni. Dal 2010 a oggi, è aumentato del 20 per cento il consumo di pizza surgelata e dell’8 per cento quello di birra in bottiglia. E’ esploso il mercato delle capsule del caffè, con una crescita del 130 per cento rispetto a cinque anni fa, contestuale al –50 per cento di spesa al bar per il caffè, perché, se non si va più al bar, il bar si sposta a casa”. (…) Elenco interessante, ma cosa ci dice, come lo possiamo inquadrare? “Ci dice che la generazione 80 euro, se così possiamo chiamarla, è una fascia della popolazione che ha ricevuto un contributo importante da parte dello Stato e del governo, ma lo ha usato più per ripianare alcuni debiti e pagare le tasse, che per far ripartire i consumi. Dall’indagine Nielsen emerge infatti che il 26 per cento dei dieci milioni di italiani (il 53 per cento) che ha ricevuto il bonus cerca di risparmiarli e non spenderli subito, e che oltre la metà lo spenderà, ma solo il 39 per cento – è la stima –, sarà utilizzato per spese quotidiane, mentre il 36 per cento andrà in spese non comprimibili (affitto, mutuo, bollette, spese condominiali e mediche). Chi non ha ancora speso quei soldi alla fine del 2014 (il 18 per cento) se li conserva in attesa di capire che cosa deciderà il governo o, semplicemente, per tamponare le emergenze. E il principio con cui si spendono quei soldi ormai è chiaro: all’aumentare dell’età aumenta la propensione alla spesa, che nelle fasce di età più anziane è destinata in parte significativa all’acquisto di prodotti per i nipoti, come i pannolini per bambini, acquistati per più del 15 per cento dagli over 65. L’impressione è che il vero universo non stimolato e sacrificato sia l’unico strato sociale che tradizionalmente aiuta i Paesi a ripartire. Fino a che l’attenzione dei governi non sarà, insomma, destinata a sostenere il ceto medio, mi chiedo come si possa pensare di uscire dalla crisi: di questo passo occorreranno più di undici anni per tornare ai livelli pre crisi per i consumi. Poi c’è un altro importante problema che ci viene dato dal contesto internazionale”. Quale? “I Paesi che crescono sono quelli dove sta esplodendo la classe media. E il vero rischio, non solo per l’Italia ma anche per il resto d’Europa, è evidente: se il ceto medio aumenta in modo rilevante in altri Paesi e non da noi, lì dove cresce questa generazione di consumatori potenziali non si andranno a concentrare solo i consumi ma anche gli investimenti delle aziende. Se i consumi crescono in queste aree – India, Sudafrica, Cina, Indonesia, Brasile – di conseguenza diminuiranno da noi e si incrementeranno da loro anche il lavoro e gli investimenti. E il problema – ahinoi! – è che faranno un biglietto di solo andata”.
[**Video_box_2**]Dove vuole arrivare? “Con tutto questo voglio dire molte cose. Primo: lo sgravio per i redditi inferiori ai 26.000 euro (gli 80 euro) è stato un primo passo che ha contribuito a sostenere l’uscita, lenta, dalla recessione della spesa delle famiglie: i consumi sono l’unica componente della domanda interna in crescita negli ultimi tre trimestri del 2014, dopo una sequenza di undici trimestri consecutivi in contrazione. Ma evidentemente tutto questo non basta, riforme strutturali rivoluzionarie purtroppo all’orizzonte se ne vedono solo fino a un certo punto. La pressione fiscale è destinata a crescere, la riforma del lavoro, da sola, non crea lavoro; in Europa i campioni dell’austerità hanno allentato la loro presa solo a livello teorico e il quadro, purtroppo, non promette di essere incoraggiante”. Possiamo provare a inquadrare dove secondo lei c’è ancora molto da fare anche dal punto di vista dell’approccio? “Il punto è questo: spesso capita che di fronte all’atto riformatore le cose giuste vengano fatte a metà e si crei un eccesso di aspettative attorno a chi propone il cambiamento. Creare l’aspettativa, però, non dovrebbe essere un punto centrale dell’operato di un governo che deve ridare fiducia al Paese? Certo. Lo è. Ma un conto è creare aspettative, un conto è alimentare illusioni. Quando pensi di arrivare a guidare il Paese promettendo di farlo uscire, nel giro di poco tempo, dalle secche e non dici invece la verità, ovvero che le cose non vanno bene, che l’economia non riparte, che gli occupati torneranno a essere in crescita in modo significativo chissà tra quanto, capita che tu politico ti scontri con la realtà dei fatti. Prometti di rivoluzionare il mondo ma poi scopri che per farlo ci vuole troppo tempo. E se ti alleni a fare il centometrista, è ovvio che quando ti accorgi di dover correre una maratona entri in affanno. E’ una questione in cui si intrecciano la comunicazione e la politica: chi ha pensato di poter portare al governo lo spirito dell’“adesso”, ovvero di una riforma al mese, presto si è dovuto ricredere calibrando il suo messaggio su uno scenario più difficile e sul quale bisogna vedere fino a che punto si possa trovare a su o agio: quello dei mille giorni. Per un politico che avrebbe voluto cambiare tutto subito, che aveva promesso che sarebbe stato possibile, che aveva disegnato un percorso rapido, scattante, trasformarsi da scattista a fondista rischia di essere complicato. E questo, se le cose non andranno bene dal punto di vista economico, potrebbe portare a seguire la strada del presidente giapponese Shinzo Abe: rivolgersi agli elettori. Il ragionamento generale che traggo però da quest’ultimo anno, valido anche nel futuro, è che, per correre, un Paese non ha bisogno soltanto di fondare la sua leadership, ma anche di costruire insieme al mondo che lo circonda un terreno su cui correre. Se si hanno le gambe ma non si ha una strada dove far esplodere il proprio potenziale si potrà essere anche muscolosi, ma alla fine non ci si muove. Ma la colpa non potrebbe essere dei nemici delle riforme? Non credo. Anche qui il discorso è sempre quello: dire le cose giuste e poi farle a metà. Chi può affermare che sia un errore indicare in alcuni pezzi di sindacato, in alcuni componenti della magistratura, in alcuni elementi del centrodestra, in alcuni elementi del centrosinistra, in alcuni membri delle corporazioni, degli elementi di freno del nostro Paese? Ovvio che è così, per quanto generalizzare non sia sempre corretto, perché non tutti i sindacalisti sono solo un freno, non tutti i burocrati sono solo un ostacolo, non tutte le corporazioni sono solo un problema. Ma un conto è utilizzare la strategia dell’accerchiamento in campagna elettorale, per dare l’impressione di essere un politico solo contro il mondo, e catalizzare così su di sé i consensi. Un altro conto è governare. E le sfide da affrontare possono essere giuste e genuine, ma a un certo punto bisogna passare dalla fase della sfida a quella dell’educazione”. Prego? “E’ una vecchia lezione della politica e, come diceva Tony Blair, a cui l’attuale leadership italiana si ispira, ci sono alcuni dettagli importanti che non si possono sottovalutare”.
Cosa diceva Blair? “Diceva una cosa semplice: sfida quanto vuoi i sindacati, prova a far cambiare loro verso, ma se poi ti limiti a sfidarli e non a educarli, e non a riconquistarli, rischi di alienarti una parte importante della società, che tu comunque hai il dovere di rappresentare. Dunque: giusto battersi contro le pratiche della concertazione, meno giusto invece far finta di non capire che senza cambiare i sindacati non si cambia l’Italia. Sempre citando Blair, che diceva Change labour to change Britain, in Italia lo stesso discorso vale per i sindacati: Change labour market to change Italy. Senza capire questi concetti non si va avanti. Non si cambia il Paese. Non si genera un processo virtuoso nell’imprenditoria. E si contribuisce a dare quella doppia sensazione. Un po’ politica e un po’ industriale. Un po’ tecnica e un po’ culturale. L’impressione, per intenderci, di un’impresa che un giorno forse ci sarà, ma al momento purtroppo non c’è”.