Così abbiamo sfidato la Consulta sulle pensioni
Il viceministro all’Economia, Enrico Morando, è intervenuto qualche giorno fa in commissione Bilancio alla Camera e ha spiegato come il governo Renzi avrebbe interpretato nel suo insieme la sentenza della Corte Costituzionale sulla legge Fornero. Arrivando persino a sfidarla. Qui il testo completo. Occhio al finale.
- La sentenza insiste sul fatto che la legge “Salva Italia” “si limita a richiamare genericamente la “contingente situazione finanziaria”, senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi”.
E più oltre: “tale diritto (ndr: alla prestazione previdenziale adeguata) costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”.
E ancora, sempre nella sentenza: “anche in sede di conversione non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3 della Legge 196 del 2009”.
Le “attese maggiori entrate”? Il comma 3 dell’art. 17 della Legge 196 del 2009, parla di Relazione Tecnica per la quantificazione delle entrate e degli oneri. E specifica i caratteri del contenuto della R.T.
Sembra quasi di leggere sentenze di altri organi giurisdizionali, circa il “difetto di motivazione” (A. Barbera). Quasi che si potesse ri-deliberare, meglio motivando (riapprovare la norme con poche modifiche, ma una più forte e dettagliata motivazione).
Ovviamente, non propongo di procedere in questo senso. Osservo solo che la “carenza” di motivazione è spesso richiamata, nella sentenza in esame.
La Relazione Tecnica originaria, quali informazioni conteneva? Erano o no “informazioni “di dettaglio”? A giudicare dalla sentenza, non conteneva “alcuna documentazione tecnica”. È fondato questo giudizio?
Esame della Relazione tecnica originaria:
Dato il rilievo che l’intervento sulla parziale deindicizzazione delle pensioni aveva per il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, la R.T del Decreto illustra i numeri presi a base e definisce i risparmi attesi (risparmi, ovviamente, non “maggiori entrate”), sia al lordo, sia al netto del prelievo IRPEF.
Nel “dettaglio”:
2012 - lordo: 3.850 mln
netto: 2890 mln
2013- lordo: 6700 mln
netto: 4930 mln
2014- lordo: 6700 mln
netto: 4930 mln
2015 - lordo: 6633 mln
netto: 4881 mln
Via via, ogni anno (nella tabella fino a 2018): lordo: 6436 mln
netto: 4736 mln
È interessante notare che la R.T metteva quindi in aperta evidenza che l’intervento di “blocco” dell’adeguamento 2012-2013 aveva un effetto permanente di riduzione della spesa previdenziale, pari, al netto delle imposte, a più di 4,5 mld l’anno (la RT limita l’esame al 2018, ma è evidente che gli effetti erano destinati a perdurare anche oltre questa data).
E veniamo alla “sede di conversione” del Decreto
Come è noto - sulla base di una allora recente riforma della norma di contabilità e dei Regolamenti Parlamentari – la R.T. originaria viene aggiornata, al momento del passaggio da una Camera all’altra, dopo ciascuna lettura: si chiama “R.T al passaggio”: sulla questione che ci interessa, la tabella originaria subisce una rilevante modificazione.
R.T “al passaggio”
2012 - lordo: 2450 mln
netto: 1839 mln
2013: lordo: 4210 mln
netto: 3110
2014: lordo: 4210
netto: 3110
2015: lordo: 4168
netto: 3079
2016: lordo: 4127
netto: 3048
2017: lordo: 4085
netto: 3018
2018: lordo: 4044
netto: 2988
Cosa aveva determinato questi mutamenti? L’esame anche sommario delle due versioni della R.T fornisce una risposta chiara: nella definizione dei presupposti del calcolo, la Relazione Tecnica originaria assume a base la quota percentuale del monte pensioni corrispondente a pensioni superiori a due volte il minimo INPS: circa il 76,5%.
Nella Relazione Tecnica al passaggio la quota è quella relativa a pensioni superiori a tre volte il minimo: circa 54% del monte pensioni pagato e da pagare nel 2011 e nel 2012.
Non è un particolare di poco conto: il “peso” del blocco, che prima gravava su 3 euro ogni quattro del monte pensioni complessivo, ora grava su 1 euro ogni due.
Governo e Parlamento avevano dunque tenuto ben presente l’esigenza di “contemperare” i due obiettivi in gioco: realizzare subito importanti risparmi di spesa, per evitare il possibile collasso finanziario, senza penalizzare gli interessi della platea dei pensionati più poveri.
Si conferma il rilievo della misura di “blocco” dell’adeguamento rispetto alla correzione complessiva del tendenziale realizzata dal Decreto (del resto resa evidente anche dal prospetto riepilogativo collocato dalla Ragioneria Generale dello Stato in apertura della Relazione Tecnica al passaggio), ma si dà conto di significative variazioni intervenute nella lettura parlamentare del Decreto Legge.
Risulta quindi acclarato che “in sede di conversione” è “dato riscontrare” non solo la presenza della documentazione tecnica” circa le attese maggiori entrate” (che hanno da intendersi come “minori spese”), ma anche lo sviluppo di un confronto politico circa i caratteri dell’intervento e il suo impatto sociale. Un confronto che si è sviluppato in Parlamento in molte sedi – quella della XI Commissione lavoro della Camera, cui la sentenza della Corte Costituzionale fa riferimento, richiamando un’audizione del Ministro del Lavoro tenuta in quella sede il 6 dicembre 2011; ma soprattutto quella delle Commissioni di merito, cui la sentenza della Corte non fa alcun riferimento, malgrado abbiamo svolto un ruolo ben più incisivo, perché sede di decisione circa il passaggio da due a tre volte il minimo INPS del limite massimo per l’adeguamento delle pensioni – approdando ad una decisione ritenuta dal Parlamento più socialmente equilibrata e sostenibile di quella originaria del Governo.
Si può dunque a mio parere concludere che la dialettica Governo-Parlamento si sia pienamente sviluppata proprio sul tema del ragionevole equilibrio tra “esigenze finanziarie” (sottolineate dal governo con la decisione di “coprire” con l’indicizzazione al 100% le pensioni fino a due volte il trattamento minimo) e i “diritti oggetto di bilanciamento” (il Parlamento che decide, col consento del Governo, di innalzare a tre quel limite).
Equilibrio, malgrado la forte correzione introdotta (il monte pensioni pagato interessato dal blocco ridotto del 25% circa), ancora troppo spostato verso le “esigenze finanziarie”? Si può certamente sostenere. Ma non si può negare che questo equilibrio sia stato consapevolmente ricercato. E che questa ricerca si sia sviluppata assumendo a base informazioni tecniche “di dettaglio”.
- Era veramente difficile la “contingente situazione finanziaria” di quel fine novembre – inizio dicembre 2011?
La sentenza sembra dubitarne: “la disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo…. si limita a richiamare genericamente la “contingente situazione finanziaria”. E poco oltre: “Tale diritto (quello ad una prestazione previdenziale adeguata – ndr), costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”.
Il comma 25 dell’art. 24 del Decreto Legge in questione, in effetti, recita testualmente: “In considerazione della contingente situazione finanziaria…”.
Ma quel comma è parte – quantitativamente essenziale, come abbiamo già visto – dell’art. 24, che così recita, al comma 1: “Le disposizioni del presente articolo (tutte, compresa quella recata dal comma 24, ndr) sono dirette a garantire, il rispetto degli impegni internazionali e con l’Unione Europea, dei vincoli di bilancio, la stabilità economico-finanziaria e a rafforzare la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico in termini di incidenza della spesa previdenziale sul PIL, in conformità dei seguenti principi e criteri:
Equità e convergenza intra e intergenerazionale, con clausole derogative soltanto per le categorie più deboli;…”
Quanto al Decreto nel suo complesso, nella premessa della emanazione, il Presidente della Repubblica scrive: “Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni per il consolidamento dei conti pubblici, al fine di garantire la stabilità economico-finanziaria del Paese nell’attuale eccezionale situazione di crisi internazionale…”.
Il contrasto dei drammatici rischi insiti nella “contingente situazione finanziaria” della fine di novembre – inizio dicembre 2011 è dunque il movente del Governo e del legislatore. E lo stesso Presidente della Repubblica esplicita di condividerlo all’atto di emanare il Decreto.
E l’opinione pubblica? Il “discorso pubblico” aveva favorito la consapevolezza del cittadino comune circa la drammaticità della situazione? Le autorità politiche e di governo avevano teso a minimizzare la dimensione e la qualità dei rischi o le avevano apertamente messe in evidenza?
Un sommario esame delle prime pagine di due soli quotidiani, consente di rispondere: il 4 dicembre 2011, il Sole 24 Ore titola: “le misure allo studio per un totale di 24 mld”. E sulle pensioni: “adeguamenti bloccati oltre i mille euro”; il 5 dicembre 2011, lo stesso quotidiano, sopra la foto del Ministro Fornero piangente: “Ecco il decreto salva-Italia”. E il 6 dicembre 2011, il titolo è: “Monti: l’Italia non fallirà”. E un grafico di prima: lo spread calato di 200 punti, da 575 del 9-11-2011, a 373 del 5-12-2011. Ma, il 7 dicembre, la conferma delle incognite: “Stretta USA sui bond europei”.
Vediamo ora il Corriere della Sera, negli stessi giorni:
5 dicembre 2011: “tasse, case e pensioni: pesanti sacrifici;
6 dicembre 2011: “manovra, ecco quanto pagheremo”. E sulle pensioni: “In pensione sei anni dopo”;
7 dicembre 2011: “Napolitano: evitata la catastrofe”.
Sembra di poter concludere che gli organi di stampa - pur giudicando diversamente ogni singola misura del Decreto - avessero fornito all’opinione pubblica una adeguata informazione circa la drammaticità della “contingente situazione finanziaria” e la gravità e l’imminenza dei rischi cui essa esponeva il Paese. E si può senz’altro riconoscere che le autorità di governo avevano illustrato senza alcuna reticenza le difficoltà e i rischi insiti nella situazione (tanto che, successivamente, una parte politica tenderà piuttosto a sostenere che allora ci fu un eccesso nell’allarme lanciato e una sopravvalutazione del rischio).
- - E l’art. 81?
Ha scritto il Professor Augusto Barbera: “… con la sentenza n. 10 del 2015 la Corte aveva sancito la illegittimità costituzionale della “Robin Tax”, ma nel contempo dando ad essa effetti pro futuro aveva escluso il rimborso delle somme pagate dai contribuenti, in nome degli equilibri di bilancio valorizzati dal nuovo art. 81 della Costituzione”.
La Corte, infatti, aveva affermato che “l’applicazione retroattiva della presente declaratoria di illegittimità Costituzionale determinerebbe anzitutto una grave violazione dell’equilibrio di bilancio ai sensi dell’art. 81 della Costituzione”. E poco oltre: “ciò vale a fortiori dopo l’entrata in vigore della legge n. 1 del 20 aprile 2012; che ha riaffermato il necessario rispetto dei principi di equilibrio del bilancio e di sostenibilità del debito pubblico”.
Nella sentenza n. 70 del 2015 il nuovo art. 81 non viene mai citato. Eppure, gli effetti sull’equilibrio di bilancio della decisione che la Corte stava per prendere, erano certamente molto significativi. Né si può sostenere che la Robin Tax avesse condotto a violazioni meno “rilevanti” di principi e valori meritevoli di tutela.
È utile approfondire il nesso tra nuovo art. 81 della Costituzione e sentenze della Corte che abbiano un impatto finanziario certo sul bilancio.
Cosa ha veramente innovato la recente riforma dell’art. 81 della Costituzione? Andando all’essenziale, si tratta di questo: la lettera e lo spirito del vecchio art. 81 facevano della Legge di Bilancio una legge meramente formale: traduzione nel linguaggio dei numeri della contabilità di ogni scelta di entrata e di spesa compiuta dall’intero corpus delle leggi vigenti. Una legge “specchio”: se cambia la legislazione vigente, cambia di conseguenza la legge di bilancio. Se la legislazione vigente non cambia, la legge di bilancio la traduce “acriticamente” in numeri (si chiama, non a caso, “bilancio a legislazione vigente”). Di qui l’esigenza di ricorrere, in sessione di bilancio, alla Legge di Stabilità (ex Legge Finanziaria): è lo strumento legislativo che contiene tutte le modificazioni alla legislazione vigente – di entrata e di spesa – necessarie per passare dal bilancio di previsione a legislazione vigente al bilancio di previsione programmatico.
Con il nuovo art. 81, la legge di bilancio “cambia natura”: entro limiti molto rigorosi, essa conserva il suo carattere di legge “specchio finanziario” della legislazione vigente, ma assume anche quello di legge “sostanziale”, mirata al conseguimento di un obiettivo autonomo, non meramente traduttivo della legislazione vigente: l’equilibrio di bilancio, così come definito nell’art. 81 e nella legge “rafforzata” che gli dà attuazione. Di qui, la scelta di superare la Legge di Stabilità, il cui contenuto proprio diventa la prima parte della Legge di Bilancio, secondo quanto disposto dalla Legge “rafforzata” n. 243 del 2012.
Se non si può dire che, con questa riforma, la Legge di Bilancio diventi in Italia ciò che è nel Regno Unito – legge sostanziale a tutti gli effetti -, è tuttavia impossibile negare che l’obiettivo dell’” equilibrio tra le entrate e le spese” diventi ora componente essenziale del “contenuto” proprio della legge di Bilancio.
Se ne può dedurre che la sentenza pro futuro sulla Robin tax – lungi dal rappresentare una anomalia da superare col ritorno a “normali” sentenze additive incuranti dei loro effetti sul bilancio – assumeva a propria base la novità dell’art. 81: la Robin tax era dichiarata illegittima, e Governo e Parlamento non potevano più farvi ricorso per assicurare l’equilibrio dei conti pubblici, al quale dovevano provvedere diversamente. Ma la sentenza non agiva sul passato, perché l’onere della restituzione ai contribuenti avrebbe inevitabilmente condotto la legge di bilancio in vigore nell’anno della sentenza a non rispettare uno dei suoi contenuti essenziali, fissato dalla Costituzione (equilibrio tra le entrate e le spese).
La sentenza sull’adeguamento delle pensioni non illustra le ragioni della diversa scelta compiuta, in questo caso, dalla Corte.
È forse perché la Corte ha ritenuto che – nel caso in questione - esistano per il decisore politico (governo e Parlamento) margini per attuare la sentenza senza provocare una irrimediabile lesione all’equilibrio di bilancio?
- E adesso?
C’è chi sostiene che la sentenza non lasci spazio ad alcuna interpretazione: dichiarato illegittimo il comma 25 dell’art. 24 del Decreto Salva Italia, essa determinerebbe il ritorno alla legislazione vigente in materia di indicizzazione delle pensioni prima del dicembre 2011. Con le conseguenze finanziarie che sono ben illustrate dalle Relazioni Tecniche al Decreto originario e alla Legge di conversione.
Il Ministro dell’Economia ha già messo in evidenza che, in questo modo, gli effetti sui conti pubblici sarebbero tali da determinare, contemporaneamente, la violazione della regola del 3% nel rapporto indebitamento/PIL; la violazione della regola relativa al ritmo di avvicinamento all’Obiettivo di Medio Termine (il pareggio strutturale); la violazione della regola del debito. Conseguenza inevitabile: la riapertura immediata della procedura di infrazione, per violazione delle tre regole fondamentali del Patto di Stabilità e Crescita Europeo.
Ma è la stessa Corte, nella sentenza, a chiarire che non è questo il significato della sua decisione.
Al punto 5 della sentenza, la Corte – nel dichiarare fondata la questione prospettata con riferimento agli art. 3, 36 primo comma e 38, secondo comma, della Costituzione – ripercorre gli interventi legislativi messi in atto nel corso degli anni in tema di indicizzazione delle pensioni, e conclude che “la disciplina generale… prevede che soltanto le fasce più basse siano integralmente tutelate dalla erosione indotta dalle dinamiche inflazionistiche..”.
Al punto 6 della Sentenza la Corte esamina il susseguirsi nel tempo degli interventi di “sospensione del meccanismo perequativo”, e conclude richiamando la sentenza della Corte stessa n. 316 del 2010, con la quale “ha reputato non illegittimo l’azzeramento (si intende l’azzeramento dell’adeguamento ai prezzi, ovviamente), per il solo anno 2008, dei trattamenti pensionistici di importo elevato…”.
Nel punto 7, la Corte rileva infine che quanto disposto dal comma 25 dell’art. 24 del Salva Italia “si discosta in modo significativo dalla regolamentazione precedente. Non solo la sospensione ha una durata biennale; essa incide anche sui trattamenti pensionistici di importo meno elevato”.
La Corte rileva altresì’ che le soluzioni adottate dal Salva Italia si differenziano anche dalla legislazione ad esso successiva: nel 2014-2016, infatti, la legge n. 147 del 2013 (Legge di Stabilità) ha stabilito che la perequazione si applichi - con la tecnica degli scaglioni - al 100% sulla quota di pensione fino a tre volte il minimo, al 95% per la quota di pensione da tre a quattro volte il minimo, al 75% per la quota di pensione fino a cinque volte il minimo, al 50% per la quota di pensione fino a 6 volte. E ha bloccato integralmente la perequazione per il solo 2014 e solo per le fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo.
[**Video_box_2**]Il giudizio della Corte sulla norma dichiarata illegittima trova quindi fondamento sulla riscontrata “diversità” dell’intervento del dicembre 2011 rispetto alle misure precedenti e successive (che la Corte stessa ricorda di aver considerato legittime con sue sentenze del passato; e mostra di continuare a considerare legittime anche nel presente, quando illustra – senza avanzare riserve - le caratteristiche dell’intervento deciso con Legge di Stabilità per il triennio 2014-2016).
Due le ragioni del giudizio di “diversità”, rispetto ai precedenti, dell’intervento del Salva Italia:
- La durata biennale (e non annuale) del blocco dell’adeguamento ai prezzi;
- La mancata progressività del blocco, in rapporto alle diverse fasce di pensione percepita (sopra tre volte il minimo, l’adeguamento ai prezzi è interamente bloccato).
La Corte, dunque, ritiene che per queste due ragioni – durata e mancata progressività – la norma violi il principio di adeguatezza (art. 38, secondo comma Costituzione) e quello di “sufficienza” (art. 36, primo comma Costituzione) del trattamento pensionistico.
Dunque, la sentenza della Corte può e deve essere pienamente rispettata attraverso un intervento che rimuova quelle componenti dell’intervento del dicembre 2011 che la Corte censura.
Stiamo lavorando a mettere a punto un intervento che abbia le caratteristiche suggerite dalla sentenza della Corte.
È necessario farlo in tempi brevi, ma anche secondo modalità e con scelte e tecniche di copertura finanziaria che ci consentano di rispettare le regole fissate – in materia di tenuta dei conti pubblici e di decisione di bilancio – dalla nostra Costituzione e dal Patto di Stabilità e Crescita che ci lega agli altri Paesi dell’Unione.
- Come è stata “difesa” la norma del Salva Italia?
La sentenza informa (punto 7 del “ritenuto in fatto”) che “è intervenuto nei giudizi il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, instando per l’inammissibilità o, comunque, per la manifesta infondatezza della questione sollevata”.
In particolare, “la difesa dello Stato eccepisce preliminarmente il difetto della previa domanda amministrativa, presupposto dell’azione”. E, in ogni caso, “richiama la giurisprudenza costituzionale, nonché il principio dalla stessa espresso, secondo cui la mancata perequazione della pensione per un periodo contenuto non incide sull’adeguatezza del trattamento pensionistico”.
Non sono un giurista. Non ho quindi né ragioni, né competenza per dubitare che questi due argomenti fossero ben fondati, e che siano stati ben sostenuti.
Quanto alla loro completezza, è invece lecito, anche per un inesperto, avanzare un’osservazione: alla lettura della sentenza, non ho potuto fare a meno di chiedermi se – dato il rilievo finanziario della questione in esame e dato il “nuovo” art. 81 della Costituzione – la “difesa dello Stato” avesse o meno formulato valutazioni circa le grandezze finanziarie in gioco e i vincoli derivanti dall’art. 81 della Costituzione e dalle regole del Patto di Stabilità e Crescita europeo.
La risposta mi è stata fornita dall’avvocato dello Stato Giustina Noviello, che ha scritto sul suo profilo twitter: “gli avvocati dello Stato non fanno i contabili”. E, replicando a chi le contestava la scelta di aver usato solo argomentazioni giuridiche, scrive: “La Corte non improvvisa, ha sempre tutti i dati, tecnici da uffici tecnici, giuridici da giuristi”.
Una certezza che dovrebbe probabilmente essere meno granitica, se il Prof. Sabino Cassese, sul Corriere della sera del 12 maggio 2015, ha scritto: “La Corte, in un passato abbastanza lontano, si era dotata di uffici che valutavano le conseguenze finanziarie delle sue decisioni. Riteneva, quindi, di dover svolgere il suo ruolo di tutore della Costituzione bilanciando la tutela dei diritti con quella dell’equilibrio finanziario, da cui anche discendono diritti”.
Cassese scrive “si era dotata”. Sembra di poterne dedurre che – per qualche ragione - nel presente questa dotazione sia venuta parzialmente o totalmente meno. Quindi, qualche argomento “contabile” avrebbe potuto risultare utile, per la formulazione del giudizio.
Ma, soprattutto, le parole di Cassese forniscono un autorevolissimo supporto alla tesi di chi sostiene che l’argomento circa le possibili conseguenze finanziarie della decisione della Corte avrebbe ben potuto essere portato nel giudizio, specie dopo l’importante decisione della Corte stessa sulla Robin tax.
Roma, 15 maggio 2015