Meno democrazia farà bene ai sindacati
La prossima volta i custodi del Colosseo, per riunirsi in assemblea come hanno fatto venerdì scorso o per proclamare un’agitazione sindacale, dovranno confrontarsi con il Garante degli scioperi, la speciale Commissione di garanzia istituita dalla legge 146 del 1990, che regolamenta l’astensione dal lavoro nei servizi pubblici essenziali. Col rischio di vedersi precettati [1].
Da venerdì sera – dopo lo scandalo, le proteste e le indignazioni per gli oltre seimila turisti lasciati fuori per circa tre ore da Colosseo, Terme di Diocleziano, Fori e scavi di Ostia Antica – il governo ha stabilito per decreto che i musei e i beni culturali in generale saranno regolati alla stregua di scuole, treni, aerei e ospedali. Sarà impedita, cioè, l’interruzione del pubblico servizio: perché la visita di un museo, di uno scavo, di un monumento d’ora in poi sarà riconosciuta come un pieno diritto dei cittadini. Il diritto alla cultura come il diritto alla salute, all’istruzione, al trasporto [1].
Per la cronaca, al centro dell’assemblea dei custodi del Colosseo c’erano il mancato pagamento dei salari accessori (incluse le festività) e l’insufficienza di personale. L’assemblea è stata chiesta nei tempi previsti e il sovrintendente, con le regole attuali, non aveva il potere di bloccarla [2].
La posizione del leader della Cgil Susanna Camusso: «È uno strano Paese quello in cui un’assemblea sindacale non si può fare» [2].
La posizione di Matteo Renzi: «Con questo decreto legge non facciamo nessun attentato al diritto allo sciopero ma diciamo solo che in Italia, per come è fatta l’Italia, i servizi museali sono dentro i servizi pubblici essenziali. Non diciamo che non si possono fare le assemblee ma diciamo che si possono fare rispettando però delle regole del gioco che consentiranno a chi si è fatto 9mila chilometri e speso migliaia di dollari o di euro per venire a visitare il Colosseo o Pompei, di non trovarsi davanti la sorpresa dell’assemblea sindacale» [3].
Armando Torno: «In un Paese dove le astensioni dal lavoro dei mezzi di trasporto e di altre categorie sono sovente organizzate nei giorni limitrofi al weekend e la logica che guida taluni sindacalisti sembra avulsa dalla realtà, fatti come quelli di Roma non rappresentano più un’eccezione. Ben vengano dei provvedimenti che impediscano di recare danno al Paese, quando le azioni sindacali obbediscono soltanto a logiche interne, a ragioni che si potrebbero definire figlie del banale egoismo» [4].
Oscar Giannino ricorda che «in Italia, in materia di diritti sindacali, la giurisprudenza cumulata è molto a favore dei sindacati. Basti pensare che nel nostro codice penale l’articolo 340 prevede pene di reclusione da 6 mesi a 1 anno per chi partecipa all’interruzione e da 1 a 3 anni per chi la organizza e ne è capo, ma se l’interruzione di pubblico servizio avviene a opera di un’impresa e non di lavoratori sindacalizzati, ecco che l’articolo 331 del codice penale alza le pene per gli organizzatori da 3 a 7 anni» [5].
Sempre a Roma, nello scorso luglio, 24 giorni consecutivi di sciopero bianco di diversi dipendenti dell’Atac hanno messo in ginocchio la metro, con enormi disagi per milioni di cittadini e turisti, prima che il prefetto decidesse la precettazione [6].
Giorgio Dell’Arti: «L’opinione pubblica sente che il sindacato è ormai un agglomerato di interessi suoi propri, che fa quello che fa più per sopravvivere come organizzazione che per rappresentare l’interesse dei lavoratori o, come ci si illudeva ai miei tempi, l’interesse generale della società. La Camusso ha rilasciato una dichiarazione stizzita, del tutto non all’altezza dell’enorme problema che hanno di fronte Cgil, Cisl e Uil: “...allora si dica chiaramente che i lavoratori non possono più avere strumenti di democrazia...”. Ma nessuno pensa più che questa sia “la democrazia”, e chi lo pensa, tante volte, è in malafede. Il sindacato rifiuta una riflessione profonda e spietata su se stesso» [7].
Dal 2009 al 2015, la quota di popolazione che esprime fiducia nella Cgil è scesa di circa 13 punti (sondaggi Demos-Coop). Dal 37% al 24%, mentre la Cisl è passata dal 28% al 20%. È interessante osservare, inoltre, come il clima d’opinione peggiori proprio nella base naturale del sindacato, gli operai, fra i quali il grado di fiducia verso la Cgil è ridotto al 21,3%. Verso la Cisl e Uil: al 18,7% [8].
Ilvo Diamanti: «È da anni che il sindacato sta perdendo adesioni. Soprattutto nell’impiego privato. Per contro, “rappresenta”, sempre di più, i pensionati: circa metà degli iscritti. Mentre è cresciuto nel pubblico impiego. D’altronde, le adesioni sindacali nell’impiego privato non sono facilmente verificabili» [8].
Enrico Marro: «Quanti sono gli iscritti a Cgil, Cisl, Uil e alle altre centinaia di sigle? Nessuno lo sa. Poiché i sindacati sono associazioni di fatto, bisogna fidarsi di ciò che dichiarano. E un discorso analogo potrebbe farsi per le associazioni imprenditoriali, dalla Confindustria in giù. Solo nel settore pubblico, grazie alla legge, esiste una certificazione degli iscritti, affidata a un ente terzo, l’Aran. Nel privato, per ora, c’è un accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, firmato il 10 gennaio 2014, ma non ancora attuato. Prevede che debba essere l’Inps a conteggiare il numero di iscritti a ogni sigla. Ma la maggior parte delle aziende, non essendo obbligate per legge, non hanno comunicato i dati» [9].
Stefano Livadiotti: «Per Susanna Camusso è quasi un’ossessione. Da quando si è insediata al vertice della Cgil (il 3 novembre 2010) si è arrampicata 67 volte su palchi di ogni ordine e grado per invocare trasparenza. La leader del più grande sindacato italiano se ne è poi però puntualmente dimenticata man mano si avvicinava la fine dell’anno e il momento per la Cgil di fare due conti sui contributi degli iscritti rastrellati nei dodici mesi. Sì, perché il sindacato di corso d’Italia, che non è tenuto a farlo per legge, si guarda bene dal pubblicare un bilancio consolidato» [6].
Secondo i calcoli dell’Espresso, i ricavi reali di Cgil, Cisl e Uil sarebbero di circa 2,2 miliardi di euro, e non i 68 milioni messi nero su bianco nei loro resoconti. Livadiotti: «Si limitano a mettere insieme in poche paginette i numeri che riguardano la sola attività del quartier generale romano. Spiccioli, rispetto al vero giro di soldi delle confederazioni, che negli anni si sono trasformate in apparati capaci di lucrare pure su cassintegrati e lavoratori socialmente utili (nell’ultimo anno l’Inps ha versato a Cgil, Cisl e Uil 59,4 milioni di trattenute su ammortizzatori sociali)» [6].
La cifra di 2,2 miliardi di ricavi si ottiene sommando i proventi legati alle iscrizioni, la quota-parte di competenza delle confederazioni sui 266 milioni che l’Inps percepisce da artigiani e commercianti, gli incassi dei centri di assistenza fiscale (Caf) e i contributi che vanno ai patronati [6].
Intanto, però, giovedì scorso la Cgil ha annunciato un’operazione trasparenza sulle buste paga, rendendo noto che Susanna Camusso guadagna 3.850 euro netti al mese e i segretari nazionali poco meno di 2.800 [2].
Qual è l’alternativa a questo regime di discrezionalità difeso dai sindacati? Mario Ajello: «Gli esperti sostengono che l’alternativa sia il modello britannico. Nel Regno Unito un organo pubblico, il Government Certification Officer, ha il compito di tenere ufficialmente gli elenchi degli iscritti a sindacati e associazioni datoriali. Annualmente i cittadini britannici sanno tutto delle retribuzioni di migliaia di sindacalisti» [10].
[**Video_box_2**]Al di là del «decreto Colosseo», i partiti hanno sempre evitato di regolare con una legge la natura del sindacato, «la destra per non essere accusata di antisindacalismo, la sinistra perché col sindacalismo era intrecciata. Né hanno mai attuato la Costituzione con una legge che preveda democrazia interna e piena trasparenza economico-finanziaria dei sindacati» (Giannino) [5].
Dell’Arti: «A parte che i sindacati di solito non vogliono, ma una legge che disciplini il sindacato – tra l’altro prevista dalla Costituzione – non potrebbe essere varata senza un’analoga legge che disciplini anche i partiti. Magari definendoli una volta per tutte soggetti privati con fini di lucro e obbligandoli a presentare i bilanci e pagare le tasse. Magari obbligandoli a quotarsi in Borsa in modo da essere poi sottoposti ai controlli della Consob» [7].
Apertura a cura di Luca D'Ammando
Note: [1] Fabrizio Caccia, Corriere della Sera 19/9; [2] Antonello Cherchi, Il Sole 24 Ore 19/9; [3] Alberto Gentili, Il Messaggero 19/9; [4] Armando Torno, Il Sole 24 Ore 19/9; [5] Oscar Giannino, Il Messaggero 19/9; [6] Stefano Livadiotti, l’Espresso 18/9; [7] Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 19/9; [8] Ilvo Diamanti, la Repubblica 31/8; [9] Enrico Marro, Corriere della Sera 13/8; [10] Mario Ajello, Il Messaggero 5/9.