Il vero conto che deve pagare Marino
Gli scontrini presunti-ingiustificati che irrompono sulla scena o i precedenti due anni e mezzo di strisciante e continua marzianitudine di Ignazio Marino, intesa come vaga inconsapevolezza-irresponsabilità del ruolo di primo cittadino della Capitale? Quale di queste è la vera ragione della resa forzata del sindaco dimissionario e forse futuro auto-ricandidato via primarie, con il sostegno di vari “beautiful” ma contro il volere del Pd, che un tempo lo candidò e che oggi lo rinnega al grido del “dàgli allo scontrino”, ma non incredibilmente per tutto il resto? Nessuno, infatti, in questi giorni, sembra più imputare a Marino il suo essersi comportato, fin dall’inizio, come un Candide stralunato o come una monade pignola e avulsa dal contesto, cosa che magari a volte cozzava contro il compito previsto – governare Roma come si può, ma governarla – e di essersi testardamente ancorato al modello del “populista urbano” alla Bill De Blasio, suo omologo newyorkese e prototipo del sindaco vendicatore degli umili a parole, ma non del tutto ancorato alla realtà dei fatti.
Si assiste invece, anche in casa Pd, a una gigantesca opera di convincimento e autoconvincimento: Marino cacciato e da cacciare per le cene, per l’ospite che smentisce la presenza al desco, per il pasto pagato con soldi pubblici nel giorno festivo e non feriale, per i piccoli peccati resi mostruosi dall’amplificatore mediatico collettivo di misfatti in nota spese. Il Pd segue l’onda, in nome della trasparenza. Ma siamo sicuri che sia questo, e non il riconoscimento dell’errore a monte (della serie: ci siamo sbagliati, abbiamo candidato un sindaco poco adatto a fare il sindaco), il modo per uscirne rafforzati?