Rottamare, ma come? Il Pd è di Renzi solo a Palazzo Chigi. Piccola guida ai guai comunali
Roma. Dicono non voglia ripetere l’esperienza della Liguria: scissione a sinistra, candidato molto poco renziano e sorprendente vittoria del centrodestra. Dunque bisogna attrezzarsi: renzizzare, renzizzare, renzizzare. Ma le elezioni comunali si avvicinano, e quando Matteo Renzi guarda al Pd nelle città, a Roma, a Napoli, a Milano e a Bologna, si accorge che in realtà i renziani al di fuori di Palazzo Chigi quasi non esistono: cioè il passo della rottamazione sì esaurisce appena superato il quadrilatero del potere romano. In tutta la provincia dell’impero il partito è impegnato in guerre per bande che non appassionano né rappresentano il segretario e presidente del Consiglio. Solo a Torino, tra le grandi città, la situazione sembra sotto controllo: lì c’è Piero Fassino, e bene o male la cosa va. Ma altrove?
Qui Napoli. Nei sondaggi il Pd (14 per cento) è superato persino da Forza Italia, che notoriamente non se la passa bene. Senza interlocutori fidati, Renzi assiste all’ultimo capitolo della guerra eterna tra il salernitano Vicenzo De Luca e l’afragolese Antonio Bassolino. Il secondo si vuole ricandidare sindaco e vuole le primarie (certo di vincerle), il primo preferirebbe piuttosto perdere il comune che vedere il suo nemico al potere (ed è contrario alle primarie). In mezzo c’è Renzi, a cui piacerebbe candidare Dario Scalella, imprenditore campano e sturtupper. Ma glielo permetteranno, nel partito che in Campania non è suo?
Qui Roma. Come dice Linda Lanzillotta, “a Roma comandano i burocrati” e i renziani anche qui non esistono: sono un gruppo volonteroso ma sparuto di consiglieri senza seguito e senza particolare carisma. Il grosso del partito è in mano ai vecchi inaffondabili, passati agilmente da Veltroni a Marino e adesso travestiti da renzisti. Il più renziano di tutti, in realtà, è il prefetto Franco Gabrielli, che però non fa parte del partito: è lo stato che fa da supplemente alla latitanza del partito e del gruppo dirigente. Francesco Rutelli sta organizzando una specie Leopolda romana, il 28 novembre. Ma è buio pesto. Renzi vorrebbe sparigliare, e persino Alfio Marchini non gli dispiace: tutto pur di costruire qualcosa di nuovo. Ma glielo faranno fare?
Qui Milano. Il renzismo ha fin qui prodotto soltanto la candidatura, o meglio la disponibilità a candidarsi ed eventualmente correre per le primarie (fissate per il 7 febbario), di Emanuele Fiano, deputato milanese. Renzi però ha corteggiato fino a ieri Giuseppe Sala, commissario di Expo, manager che può vantare il successo dell’Esposizione universale. E Sala non ha nessuna voglia di candidarsi. Il segretario del Pd cerca uomini estranei alla politica, ma il suo partito, e gli alleati, gli resistono. Una parte del Pd vorrebbe Pierfrancesco Majorino, la sinistra interna (e Pisapia) invece spingono per il vicesindaco Francesca Balzani.
[**Video_box_2**]Qui Bologna. Anche qua Renzi subisce, e non può che imbarcare il vecchio ceto eterno, con tutti i suoi guai. Il sindaco si chiama Virginio Merola – era un nipotino di Bersani, ma da un paio d’anni dice che il futuro è nelle mani di Matteo Renzi – e si vuole ricandidare. Tuttavia i rapporti nella vecchia sinistra sono esplosi tra rancori e sogni di vendetta che hanno fatto, a un certo punto, persino ipotizzare una candidatura alternativa dello stesso Pierluigi Bersani a sindaco, mentre adesso hanno prodotto un’altro avversario interno, un ex assessore, Alberto Ronchi, provienienza sinistra-sinistra. E insomma a Bologna, dove ancora tesse e trama anche Romano Prodi, per adesso il più renziano è un bersaniano.