Sesto, non sputtanare
Roma. Con voce fredda, lenta, ma che pure tradisce l’emozione, Filippo Penati dice che la sua vita adesso torna ad avere un senso: assolto dal Tribunale di Monza, dal presidente Giuseppe Airò, un vecchio magistrato di sinistra, uno di quelli che dentro Md faceva le battaglie garantiste negli anni Settanta, un giudice tanto stimato da colleghi e avvocati che quando Penati mesi fa ha saputo che sarebbe stato lui a presiedere il collegio giudicante, a un certo punto ha pensato che si sarebbe potuto anche avverare il miracolo, cioè una sentenza che smontasse il mastodontico eppure evanescente impianto accusatorio. E così è stato. Assolto, dunque, “perché il fatto non sussiste”, dopo quattro anni e mezzo d’inferno giudiziario vissuti in una condizione spaventosa, con il reato di concussione prescritto a marzo del 2014: la freddezza dei vecchi compagni di partito, la carriera politica stroncata – “ma non importa, tornerò a insegnare nelle scuole” – la richiesta di ripagare danni per 130 milioni di euro (evitata da un’altra assoluzione in Corte dei Conti), e poi la prospettiva del carcere che solo un gip attento gli aveva finora evitato respingendo le richieste della procura che lo avrebbe voluto in detenzione preventiva sin da subito. E infine la macelleria mediatica, la solita miseria, botte da sinistra e botte da destra, anche – soprattutto – da quei giornali che sempre sono indiziari contro i nemici, e rigoristi in favore degli amici, a riprova che il garantismo, in Italia, è peloso e si perde nel risentimento: “Le mani sporche del Pd” (Libero), “Penati si sospende per finta: conserva lo stipendio” (il Giornale), mentre Gad Lerner su Repubblica chiedeva le dimissioni di un uomo che pure conosceva e stimava e Pier Luigi Bersani si metteva con le mani in alto, in segno di resa totale, e dunque intervistato dall’Unità, il 22 luglio del 2011, nel giorno in cui il suo braccio destro precipitava nell’abisso, diceva: “Chi è indagato faccia un passo indietro. Anche se è innocente”.
Sindaco di Sesto San Giovanni, paese operaio, Stalingrado di Lombardia, poi presidente della provincia di Milano, infine membro della segreteria nazionale del Pd, artefice organizzativo e politico dell’elezione di Bersani a capo del partito, Filippo Penati, fino a quel luglio del 2011 quando il suo mondo si è spento di colpo, era stato il testimonial del ritorno al nord di quel Pd che dal nord era stato marginalizzato. Quando venne colpito dall’avviso di garanzia era allo zenit, a fianco del capo del partito, a fianco di Bersani, il segretario che l’impianto accusatorio di Monza in questi anni ha tentato di coinvolgere nelle indagini – ma senza appigli e senza successo – assieme a Massimo D’Alema: tutti citati da un testimone d’accusa, l’architetto Renato Sarno, che poi ha però ritrattato completamente le sue dichiarazioni spiegando che durante gli interrogatori con i magistrati di Monza gli era apparso chiaro “che se non avessi detto qualcosa su di loro non sarei uscito dal carcere”.
[**Video_box_2**]Attorno a Penati, scuola riformista o migliorista, uomo convinto che la funzione sociale e politica del partito sia quella di governare la società, si è cercato di riconoscere i segni di un sistema di potere (e di malaffare) che partendo dal comune di Sesto lo aveva proiettato sino a Roma, nelle stanze del Nazareno, nel ruolo di braccio destro del segretario democratico. L’inchiesta di Monza è da subito apparsa mostruosa, nel senso letterale del termine, cioè enorme, ramificata, multiforme, caratterizzata da una molteplicità di spunti investigativi che se l’hanno resa suggestiva per le notevoli implicazioni tra cooperative rosse, soldi pubblici e privati, imprenditoria e politica, finanziamenti illeciti e risonanza dei nomi coinvolti – materia sufficiente per eccitare magistrati e giornalisti – l’hanno pure resa immediatamente sospetta agli occhi degli osservatori più disincantati e meno inclini alla macelleria preventiva. Due testimoni, il costruttore Pasini e l’imprenditore Di Caterina, che accusano di corruzione Penati, ma pure sono sospettati sin da subito d’essere in conflitto d’interessi, d’avere cioè dei motivi di rancore personale nei confronti del coimputato. Poi le dazioni di denaro senza prove, senza riscontri fino all’ultimo. E infine, sullo sfondo, la storia dell’autostrada Milano-Serravalle, così accattivante da sembrare uscita da un romanzo di John Grisham, così perfetta e machiavellica, intrecciata persino con le vicende della scalata di Unipol a Bnl (quella dell’intercettazione di Piero Fassino: “Abbiamo una banca”), una bomba politica che, in soldoni, avrebbe dovuto dimostrare che la scalata a Bnl da parte di Giovanni Consorte – banchiere “rosso” – era stata in parte finanziata con i soldi che il costruttore Marcellino Gavio aveva ricavato dalla vendita del pacchetto di controllo della Milano-Serravalle alla provincia di Milano, allora guidata da Penati, che avrebbe acquistato le azioni per una cifra “esorbitante”, fuori mercato, facendo guadagnare Gavio che intanto aiutava Consorte e dunque il partito di Penati. Troppo bello, anche per essere vero.
Elegante, bonario, silenzioso, in questi anni Penati non ha mai evocato il complotto o la trama politica come inquietante rovescio del ricamo giudiziario, non si è abbandonato a violenti sfoghi contro la giustizia a orologeria, né si è andato a iscrivere a Forza Italia come Francantonio Genovese. Adesso è tornato alla superficie delle cose, a respirare un senso leggero, nuovo, di una situazione sospesa, sì, la procura farà probabilmente appello, ma anche aperta. “Riemergo da un’ingiustizia durata quattro anni e mezzo”.