"Può o no il renzismo trasformarsi in egemonia non solo di potere ma anche culturale? Può o no il renzismo essere qualcosa di diverso da una volatile e generica espressione legata solo a parole deboli e indefinite?", si chiedeva Claudio Cerasa venerdì. Oggi Ernesto Galli Della Loggia prova a rispondere: no.
Sul Foglio di venerdì, elencando nomi dei partecipanti e velleità politiche e culturali del nuovo think tank voluto da Matteo Renzi, Volta, il direttore Claudio Cerasa si chiedeva:
Può o no il renzismo trasformarsi in egemonia non solo di potere ma anche culturale? Può o no il renzismo essere qualcosa di diverso da una volatile e generica espressione legata solo a parole deboli e indefinite come “giovanilismo”, “nuovismo”, “riformismo”, “dinamismo” e il solito “ottimismo”?
Il presidente del Consiglio lo vuole fare partendo innanzitutto dal servizio pubblico televisiovo, e le nuove nomine in Rai sono lì a dimostrarlo, scriveva ancora Cerasa.
Attraverso la Rai, dunque, Renzi proverà a fare quello che a Berlusconi è riuscito con un certo successo con le sue reti televisive. E, in modo diretto o indiretto, passa dalla trasformazione del servizio pubblico la possibilità che il presidente del Consiglio possa creare una stabile “connessione sentimentale” con un pezzo di paese.
Il rischio che il renzismo rimanga confinato a Palazzo Chigi è alto, il segretario del Pd lo sa bene e sta facendo di tutto perché non sia così. Il think tank Volta serve proprio a questo.
Il volto scelto dal presidente del Consiglio per esportare il renzismo lontano da Palazzo Chigi, se così si può dire, è quello del think tank annunciato all’ultima Leopolda (Volta). E ora che il centro studi presieduto da Giuliano da Empoli (sede a Milano nello spazio della Fondazione Trussardi) ha trovato una sua fisionomia (e anche un budget che deriva, per scelta degli organizzatori, da finanziamenti di aziende private e non da finanziamenti dello stato o di aziende a partecipazione statale) è evidente che il mondo renziano ha deciso, in qualche modo, di declinare il suo pensiero attraverso la costituzione di un proprio Aspen Institute.
Oggi sulla prima pagina del Corriere della Sera Ernesto Galli Della Loggia riprende la domanda del Foglio e prova a rispondere.
In molti suppongono che Matteo Renzi, ormai padrone assoluto della Rai, abbia in animo di usare i potenti mezzi di Viale Mazzini per elaborare e diffondere il «renzismo». Non a caso, e sempre per muoversi nella stessa direzione, osservano altri, già da qualche tempo egli ha deciso di fondare un think tank con sede a Bruxelles, di nome «Volta». E più d’uno — per esempio il direttore del Foglio Claudio Cerasa — aggiunge che tutto ciò farebbe pensare al desiderio da parte del premier di costruire una forte prospettiva ideologica considerata necessaria al consolidamento della sua leadership: con l’intento, addirittura, di trasformare il «renzismo» in un’egemonia culturale. Magari, mi verrebbe da dire (naturalmente pensando a un’accezione non prescrittivo-autoritaria del termine egemonia).
Galli Della Loggia è pessimista sulla possibilità di che Renzi e il suo think tank riescano nell'impresa di dare al paese una "vocazione", un "percorso esemplare", un progetto. La colpa non è di Renzi, dice l'editorialista del Corriere, ma della Seconda Repubblica, che "ha alle spalle il nulla". Non convincono i nomi scelti da Matteo Renzi per questo progetto culturale, nomi che sono diretta conseguenza – scrive Galli Della Loggia – del "vuoto su cui galleggia la Seconda Repubblica".
Amministratori delegati e dirigenti di grandi imprese (da Lazard ad Autostrade), scrittori, docenti di governance e di public affairs, direttori di musei, esperti di innovation, responsabili di organizzazioni umanitarie, economisti, un paio di professori di diritto e di scienza politica. Per una buona metà inglesi, americani, spagnoli, francesi, tedeschi: i quali si può presumere che sappiano dell’Italia quanto io so del Michigan. Insomma un think tank all’insegna dell’eterogeneità e del più provinciale internazionalismo, infarcito di «grossi nomi» (o presunti tali) messi lì, si direbbe, al solo, italianissimo scopo, di «far bella figura». E che quindi servirà a poco o nulla.
Certo, l'obiettivo è ambizioso, come scriveva ancora Cerasa sul Foglio venerdì:
L’idea di fondo è quella di esportare il renzismo, dimostrare che dietro le azioni di governo del presidente del Consiglio esiste una cornice culturale e aiutare il premier a trovare idee per battaglie future. Il renzismo di governo oggi ha il fiato corto e si capisce dunque che, in una fase politica delicata come quella che stiamo vivendo, per il presidente del Consiglio rischia di diventare vitale riuscire a rispondere positivamente alla domanda che ponevamo all’inizio: il renzismo può trasformarsi in un’egemonia non solo di potere, ma anche culturale? Chissà.
La risposta del Corriere della Sera è netta: no.
Matteo Renzi non rappresenta certo alcuna tradizione né, al di là della «rottamazione», sembra riuscire ad essere protagonista di alcuna vera rottura. Il «renzismo» dunque resterà al massimo una strategia di governo ( e di sottogoverno) di successo per un Paese fermo, in attesa timorosa di ciò che gli potrà capitare domani.