La spinta discreta dell'ambasciata Usa per la riforma della giustizia
Ne parliamo spesso, è una nostra ossessione, siamo convinti che sia uno dei più gravi problemi irrisolti nel nostro paese, crediamo sinceramente che senza mettere mano alla giustizia non sia possibile fare nulla, non sia possibile creare posti di lavoro, non sia possibile attrarre investimenti, non sia possibile essere competitivi, non sia possibile garantire ai cittadini il rispetto dei propri diritti e alla fine le questioni più importanti le conosciamo tutti e la sappiamo a memoria. La lentezza del sistema giudiziario. La politicizzazione della magistratura. La non terzietà dei giudici. La trasformazione del processo penale in processo mediatico. La non presunzione di innocenza. Il cortocircuito quotidiano che si registra nei rapporti tra sistema giudiziario e sistema mediatico. La trasformazione del ruolo del magistrato in una figura che tende a non distinguere più ciò che è peccato da ciò che è reato. La supplenza costante, progressiva, letale che la politica ha delegato alla magistratura, l’incertezza della pena. E ancora, andiamo avanti.
Il regime para totalitario imposto dalla dittatura delle intercettazioni. La costante violazione della privacy. L’impunità del giudice. La frammentazione in correnti della magistratura. L’abuso della custodia cautelare. L’imbroglio dell’obbligatorietà dell’azione penale. E così via. I temi li conosciamo ormai a memoria e potremmo andare avanti per ore a elencare i problemi della giustizia italiana se non fosse che negli ultimi giorni c’è una novità importante che merita di essere segnalata e che ci permette di registrare un doppio fenomeno interessante: la creazione di un piccolo movimento per la giustizia (si chiama FPC, Fino a Prova Contraria) nato per strutturarsi come antidoto autentico ai Palasharp e alle gogne d’Italia e l’interessamento attivo e non del tutto rituale dell’ambasciata americana (guidata da John Phillips) nell’andare a promuovere nel nostro paese un’agenda per una precisa riforma della giustizia. Il movimento è formato da Annalisa Chirico (giornalista), Giuseppe Cornetto Bourlot (imprenditore), Edward Luttwak (consulente governativo), Piero Tony (ex procuratore capo di Prato), Luca De Michelis (amministratore delegato di Marsilio Editori), Patrizio Donnini (consulente esperto di comunicazione), è stato benedetto proprio John Phillips martedì scorso a Roma in ambasciata (presente anche l’ex ministro della Giustizia Paola Severino) e in quell’occasione è stato presentato documento che andrebbe volantinato in tutt’Italia contenente alcuni dati – clamorosi – che fotografano bene lo stato della giustizia italiana e che spiegano perché, come sostiene l’ambasciatore americano, le relazioni commerciali e di investimento tra Stati Uniti e Italia sono molto al di sotto del loro potenziale (secondo Philips, il valore degli investimenti diretti in Italia è meno della metà degli investimenti degli Stati Uniti in Francia, e solo un quarto del valore degli investimenti americani in Germania). La ragione per cui, in questa classifica, l’Italia resta dietro a Spagna, Belgio, Svezia e Norvegia, nonostante sia il terzo paese della zona euro e la seconda più grande economia manifatturiera europea e il quarto paese esportatore, è perché “i potenziali investitori americani temono la lentezza della giustizia civile, in particolare l’impossibilità di ottenere l’esecuzione di un contratto in un tempo ragionevole”.
Partiamo con i dati? Partiamo. Dato numero uno. Global Competitiveness Index elaborato su 140 paesi dal World Economic Forum. Stima settembre 2015 sulla competitività dell’Italia: 43mo posto. Ragione? “Tra i fattori che più ostacolano la propensione a fare impresa ci sono l’inefficienza della burocrazia e il carico fiscale”. Settore in cui l’Italia registra la performance tra le infrastrutture istituzionali? Indovinate: il sistema giudiziario (l’Italia si colloca al 139mo posto su 140 paesi per l’efficienza della cornice giuridica nella risoluzione delle controversie). Sulla base dello stesso parametro il Regno Unito è sesto, la Germania è 16ma, la Francia 28ma, la Spagna 88ma. Altro parametro, stessa classifica: percezione dell’indipendenza giudiziaria. L’Italia si colloca all’81imo posto. La Germania al 17esino. La Francia al 29esimo. Altro giro, altra corsa, altra classifica: Rule of law Index, de World Justice Project. Viene misurato il grado di salute dello stato di diritto in 130 paesi. Dati 2015: l’Italia si colloca al 30imo posto nella classifica generale, seguita dal Botswana, e al 19imo tra i 24 paesi comparabili per livello di reddito. Ancora. Indagine Doing Business 2016 della Banca mondiale. Si indagano, per ogni paese, la competitività e la capacità di attrarre investimenti. L’Italia dov’è? Posizione numero 45. Certo. Qualcosa negli ultimi anni è stato fatto, ne abbiamo parlato con il ministro Orlando su queste pagine. Sull’affollamento carcerario i dati sono migliorati (nel 2012, a fronte di una capienza carceraria pari a circa 47 mila unità, vi era una popolazione carceraria che ammontava a circa 65 mila unità, e oggi, a fronte di una capienza leggermente superiore, pari a circa 50 mila unità, siamo arrivati ad avere 52 mila detenuti). Ma la percezione che l’Italia offre fuori dai suoi confini è sempre la stessa. Incertezza. Insicurezza. Sfiducia. L’ambasciatore americano sostiene che la “lentezza del sistema giudiziario può essere considerato il motivo principale per cui l’economia italiana non è cresciuta a sufficienza” e non si può che essere d’accordo con lui. E chissà che di fronte a un’anomalia mastodontica come quella della giustizia italiana non sia salutare che sia un paese straniero a smuovere il nostro governo sul tema dei temi: avere, adesso, un paese più giusto.