Il giudice è attivista per natura
Gli individui si muovono per interesse personale e non soltanto per ciò che credono giusto. Il potere giudiziario non è immune da questo meccanismo. Non c’è dunque bisogno di teorizzare chissà quale trama politica ordita in segreto per sostenere che essi siano portati naturalmente, diciamo, a un certo tasso di attivismo. Obbligatorietà e reati fumosi fanno i pm leoni. Renzi e i magistrati.
La persona nella cabina elettorale e la persona al supermercato sono la stessa persona”. Per quanto intuitiva, si tratta di una delle tesi più dirompenti su cui, fin dagli anni Sessanta, si è fondata la scuola americana dell’analisi economica applicata alla politica, la cosiddetta public choice.
Il ragionamento è grossomodo il seguente. Innanzitutto, gli individui si muovono per interesse personale. Non soltanto quando gestiscono la propria impresa privata o quando fanno la spesa al supermercato. Si muovono per interesse personale, e non soltanto per ciò che credono giusto, anche quando decidono chi votare nel segreto dell’urna o quando siedono su uno scranno del Parlamento. D’altronde nemmeno il politico più idealista dimentica – per dirla nel gergo degli economisti e dei politologi affini alla public choice – di “massimizzare la propria utilità”. Foss’anche solo perseguendo politiche che spera possano piacere alle persone, affinché queste ultime lo voteranno di nuovo.
Lo stesso vale per i burocrati pubblici, anche loro mossi dall’aspirazione di fare carriera. Né il potere giudiziario è immune da questo meccanismo. Non c’è dunque bisogno di teorizzare chissà quale trama politica ordita in segreto e all’unanimità dai magistrati italiani per sostenere che essi siano portati naturalmente, diciamo, a un certo tasso di attivismo. Non occorre essere dei pubblici ministeri particolarmente vanesi o desiderosi di fare politica – esemplari di cui tra l’altro l’Italia abbonda – per volere una retribuzione maggiore, per puntare a migliorare lo status personale e quello di tutta la categoria agli occhi del pubblico, per veder aumentare le risorse attribuite ai propri uffici, eccetera. In Italia, però, questa naturale tendenza è addirittura incentivata dal legislatore. Il tandem tra obbligatorietà dell’azione penale e proliferazione di fattispecie di reato piuttosto fumose (vedi alla voce: concorso esterno, traffico d’influenze, disastro ambientale) offre infatti praterie sterminate all’attivismo giudiziario, specie quello dei pubblici ministeri.
Da settimane, non a caso in contemporanea a un confronto serrato tra potere giudiziario e potere politico, ne stiamo avendo l’ennesima prova. Dove si dovrebbe indagare per reati ambientali, si finisce invece – via intercettazioni e traffico d’influenze – per giudicare il merito degli emendamenti di una legge finanziaria. Dove si dovrebbe indagare per corruzione, si finisce invece per giudicare il merito di presunte “raccomandazioni”, come nell’ultimo polverone mediatico-giudiziario sollevatosi attorno a Ivan Lo Bello. La discrezionalità del giudice non si ferma più nemmeno lì dove inizia la discrezionalità politica, fondata sul suffragio universale. Eppure già James Buchanan, premio Nobel per l’Economia nel 1986, avvertiva: “Quando gli individui sono visti come mossi da un interesse personale, in politica come in altri aspetti del loro comportamento, la sfida costituzionale diventa quella di progettare e costruire istituzioni strutturali o regole che limitino, fino al limite massimo possibile, l’esercizio di tale interesse, e lo dirigano verso l’interesse generale”. Ieri, alla Camera, il presidente del Consiglio è stato bravo a denunciare “le barbarie del giustizialismo in Italia” e a ricordare che i processi si fanno nelle aule dei tribunali e non sui mezzi di comunicazione. Tutto vero e tutto giusto. Ma l’analisi sulle patologie del sistema giudiziario italiano saranno sempre incomplete fino a quando la politica non reagirà contro il tentativo della magistratura di sentenziare sulla discrezionalità delle scelte politiche.
L'editoriale dell'elefantino