La rivoluzione liberale e liberista in italia secondo Pannella. Perche' no?
Domanda. Evochi scenari pre-rivoluzionari che non sembrano appartenere a questa fine di secolo. E “rivoluzione liberale” è espressione ambigua, che in passato è stata il veicolo dei peggiori illiberalismi. Vogliamo specificare meglio il contesto sociale e politico al quale ti riferisci?
Risposta. Recuperiamo l’analisi non gramsciana ma salveminiana del blocco sociale dominante. Questo blocco sociale si presenta identico a se stesso per ottant’anni: ha dominati il fascismo dal ’25 al ’43, e l’antifascismo dal ’47 ad oggi. Esso comprende il mondo industriale e finanziario guidato dalla Fiat e dai suoi uomini, le aristocrazie operaie “sindacalizzate”, il potere burocratico, la borghesia parassitaria del Mezzogiorno. Poco è cambiato da allora. Se tentassimo un aggiornamento dell’analisi salveminiana, dovremmo oggi constatare che non ci sono più i latifondisti, ma resta attuale il riferimento al potere industriale, alla politica romana che per le sue pratiche concertative utilizza la burocrazia e l’amministrazione pubblica, ai sindacati, a quel tanto di Chiesa che resta (anche se il Vescovo è di destra, sta con l’Ulivo perché di lì arrivano tutti i soldi pubblici). In fondo, Luigi De Marchi non sbaglia quando parla di “ceto burocratico” – possiamo anche definirlo classe burocratica – sostenendo che nelle nuove fratture sociali Cipolletta e Cofferati si collocano dalla stessa parte. Questo blocco sociale è diventato struttura di potere, ha prodotto corporativismo, Stato etico, e l’anti-cittadino. Oggi sembra essere giunto al suo apogeo, ma come nella Francia dei primissimi anni di Luigi XVI. Ciò che caratterizza socialmente l’attuale fase storica della società italiana è che grandi masse, complessivamente fortemente maggioritarie, si sentono e si vogliono estranee e nemiche dello Stato partitocratico e della cultura della quale il blocco sociale dominante è espressione. Le similitudini con la situazione prerivoluzionaria francese degli anni intorno al 1780 sono a volte impressionanti.
In Italia oggi vi è qualcosa di più di un potenziale Terzo Stato, che si oppone a un regime mostruosamente potente e tentacolare, espressione organicistica, chiusa, quasi perfetta delle tradizioni antiliberali: si direbbe in Francia “antirepubblicane”. Tutti i partiti – quelli di maggioranza così come quelli di opposizione – sembrano chiusi, compressi e rissosi, in un ghetto che comprende al massimo un quarto dei cittadini italiani. Il regime appare come un colosso con i piedi d’argilla. Poggia comunque sulle mine o sabbie mobili di un popolo le cui esigenze, le attese, i sentimenti e i risentimenti si volgono sempre più apertamente contro il regime. Si tratta, perciò, di porsi alla testa, guidare e armare la rivolta sociale che per molti versi già incombe. O lo facciamo noi, da radicali liberali, edificando sulle macerie di questo regime un’alternativa di tipo anglosassone, o lo faranno altri radicali: neo-comunisti, neo-fascisti e neo-clericali, destinati a ritrovarsi uniti per imporre tutti insieme nuovi assetti di violenza, di ingiustizia, di intolleranza, di miseria economica e civile. E’ insomma necessario, come ha magistralmente spiegato Sergio Romano proprio su Ideazione, che i liberali e i moderati cessino di considerare se stessi come molluschi invertebrati, per assicurare allo scontro politico e sociale l’intransigenza senza la quale nessuna grande riforma -di se stessi e del paese – e nessun buon governo sono immaginabili.
D. Categorie “emergenti”, come quella dei magistrati, in che rapporto vengono a trovarsi con il blocco sociale che tu tratteggi?
R. La loro integrazione nel regime è scontata, ne sono elemento costitutivo tra i più potenti e pericolosi. Il cosiddetto “partito dei magistrati” gli ha concesso il massimo dei benefici economici, finanziari e di carriera. Contro di loro servirebbe un po’ di sana lotta di classe… Hanno stipendi fra i più alti del mondo e condizioni di carriera scandalose. Perfino Scalfaro, per una volta, è riuscito ad avere una battuta felice quando ha detto che un giovane che entra in carriera a 25 anni potrebbe già scrivere sui suoi futuri biglietti da visita “futuro presidente di Corte di Cassazione”. Ma, se entriamo nel mondo delle corporazioni, dobbiamo accennare anche alla casta militare con i suoi più di 1.000 generali al posto dei 30 realmente necessari; alla burocrazia, al potere corporativo di alcune categorie di pensionati (che in gran parte coincide con quello dei sindacati). Del “blocco sociale” dominante fanno poi parte tanti, e grandi, sepolcri imbiancati. Come quella Banca d’Italia che è stata la prima responsabile, per decenni, dell’uso massicciamente partitocratico e mafioso del credito, oltre che del mostruoso indebitamento che è stato necessario per assicurare il potere assistenziale e clientelare, corporativista e inflazionista del regime partitocratico della fase precedente a quella che stiamo oggi vivendo. Dobbiamo poi parlare della disponibilità da parte di questo blocco degli strumenti del potere moderno: Mussolini aveva a disposizione solo la radio. Questi controllano tutto quanto consente il condizionamento, garantendosi oppositori complici ideologicamente e culturalmente. Questo Polo gli va benissimo, perché sembra aver abbandonato l’idea della grande riforma istituzionale americana antipartitocratica e sterilizza l’opposizione sociale. (…)
D. Non si riuscì allora, e ammetti tu stesso che i rapporti di forza ti erano molto più favorevoli. Perché dovresti riuscirci oggi che la situazione, almeno in apparenza, è molto più chiusa e stabilizzata? Insomma, dove sono i soggetti sociali e dove risiede la forza politica della tua “rivoluzione liberale”?
R. Il fatto nuovo nella storia d’Italia è che per una serie di fatti, certo transeunti ma che durano già da 10 anni, il paese è oggi pronto a fare la sua rivoluzione liberale. Non che il Paese ne sia cosciente o che voglia la rivoluzione, ma esiste una maggioranza assoluta di ribelli, di scontrosi, di stanchi che possono “fare lega” e diventare un soggetto politico creativo e alternativo, di nuova legge e di nuova legalità. Per tenere in piedi il blocco sociale egemone non basta più la corruzione o la cooptazione, non basta più la distruzione sistematica dei princìpi della vita democratica e costituzionale. Questo "regime terzo" è arrivato alla resa dei conti, sta raschiando il fondo del barile. Se ci fosse un’azione decisa, a salvarlo non basterebbe più neanche l’arma politica del linciaggio che contra legem la magistratura italiana ha consentito alla sinistra, e in particolare al Partito comunista, di utilizzare per 40 anni (contro Ruini, contro Piccioni, contro Berlusconi, eccetera) come arma di lotta politica. Si sono così disarmati i codici italiani della possibilità di perseguire i reati contro la personalità e di difendere la reputazione e su questo terreno si è saldata l’alleanza tra il partito dei magistrati e il partito degli editori. Queste sono in Italia le due grandi corporazioni che, per ora, hanno vinto. E che reggono il regime.
In questa situazione storica, però, poco di più può giungerci dalla "politica politicante" al centro, a destra, a sinistra. Lo Stato e le istituzioni sono in putrefazione. La giustizia, la scuola, il mercato, la sanità, l’ambiente sono funzioni degradate, non di rado repellenti. Il popolo, la gente, gli individui sentono che lavorare fino a oltre la metà del mese per lo Stato è intollerabile, ingiusto, sbagliato. Le oligarchie del denaro e dell’industria, in alleanza con le oligarchie partitiche ed elettive, sindacali, amministrative, e le corporazioni dei giudici, della stampa, dei mestieri intellettuali, degli ordini professionali, costituiscono un agglomerato di potere, un "disordine costituito" che sta portando l’Italia a essere sempre più "mediterranea", sempre meno "occidentale" ed "europea". A tutto ciò si contrappongono i sei milioni di partite Iva - cioè gli interessi oggettivi dei piccoli nuovi imprenditori - soffocati dalla burocrazia confindustriale; i lavoratori autonomi ed i giovani in cerca di prima occupazione, vessati dalla politica sindacale. Se la Confindustria o il Polo facessero propri 4 o 5 referendum liberisti, l’impopolarità "di massa" del sindacato diventerebbe palese. Perché già in questa situazione si è rovesciato il tradizionale rapporto di forze: oggi gli unici che possono contare su forze di massa sono le proposte liberali; la Confindustria, consapevole di questo, ha paura che il blocco sociale tradizionale possa prima o poi saltare. La concertazione è intoccabile: siamo giunti a vedere l’Avvocato, con a fianco D’Alema che acconsente, affermare esplicitamente che è preferibile che a governare sia la sinistra perché controlla di più i contrasti sociali. Non è difficile prevedere che questo potere arriverà con dieci anni di ritardo a fare le riforme decisive, come quella delle pensioni. Questi faranno nel 2005 ciò che Giuliano Amato stava facendo nel 1992. Nel frattempo, l’Italia avrà perso l’autobus e si sarà impoverita.
D. Ma si può rilanciare una “sfida liberista” nel momento nel quale questa politica indietreggia in tutta l’Europa continentale?
R. Sta di fatto che se oggi in Italia si alzasse un imprenditore degno di questa parola, dichiarasse guerra alle bordature corporative ed avesse il coraggio di annunziare: io voglio la lotta sociale, i sindacati e la sinistra sarebbero già sconfitti. Oggi la lotta sociale possono farla innanzitutto i liberisti. C’è una cosa da chiarire una volta per tutte: quelli che sono neo-keynesiani e anti-liberisti, ritengono che il liberista sia per la legge della giungla ed a questa impenetrabile giungla loro contrappongono l’economia a due settori. Questa, storicamente, è stata e resta una soluzione improbabile, perdente. Non può funzionare se nel settore pubblico non ci sono motivi di sana imprenditorialità, e non possono esserci perché i suoi valori sono altro rispetto a quelli del rischio, del profitto, del fallimento (in Italia è stato abolito perfino il diritto al fallimento). In realtà, la vera contrapposizione al cosiddetto “liberismo selvaggio” è quella che può offrire lo Stato regolatore che non ha nemmeno l’illusione lontana di poter essere titolare di un settore dell’economia. Al mercato, con tutti i suoi rischi, viene dato il resto. L’unica reale esigenza vitale (nel vero senso della parola, perché al di fuori di essa non c’è vita), che viene prima anche dell’ansia di giustizia, è quella del mercato contro gli oligopoli.
D. Evochi la rivoluzione possibile e scenari ultimativi. Ti riferisci al ruolo di minoranze attive che dovrebbero creare un soggetto politico nuovo e mostrare al Paese la via del cambiamento che esso non sa scorgere. Tutto ciò non è forse in contrasto con la qualifica di “riformatore” alla quale hai sempre tenuto?
R. Ho trovato in Bergson, che ho ripreso tra le mani l’altro giorno, una intuizione importante: la “riforma” si può fare se si accetta l’idea della “forma” nel diritto e nella politica. Che m’importa quale sarà la riforma di D’Alema se so che non crede nella forma? Se non si rispetta la Costituzione che si ha, perché si dovrebbe rispettare la Costituzione che verrà? Noi dobbiamo fare la rivoluzione americana o quella del 1789 e non quella del 1793 o dell’ottobre 1917. Dobbiamo guadagnare innanzi tutto la certezza del diritto. Questa è una battaglia di civiltà profonda. E’ la rivoluzione illuminista e liberale che pone il diritto come fondamento della possibilità del vivere: un diritto che impone al potere di servirlo esattamente come al semplice cittadino. La negazione di ciò rappresenta la vera ideologia e cultura del “regime terzo”, che è stata distillata in un modo spaventoso. Il fatto che stia scomparendo dalle cose visibili la filosofia del diritto è il segno più evidente della sua potenziale pericolosità per questo regime. Sul piano storico, poi, don Benedetto continua a offrirci una riflessione che è giusta: questo è un paese che ha avuto solo controriforme e mai una riforma. Anche se poi sul Risorgimento faceva le sue specificazioni.
D. Resta un dato di fatto, che per te rappresenta anche un problema politico: i soggetti sociali sui quali conti per la “rivoluzione liberale” sono gli stessi che riempiono le piazze dell’opposizione. Non si pone per te l’esigenza di trovare un rapporto con le forze del Polo?
R. Certo, in piazza dal Polo ci vanno un po’ di persone che non ne possono più, ma oggi riempire le piazze con la complicità dei mass media di regime è un gioco da ragazzi. Ma mi sentirei di affermare che la cosiddetta “classe dirigente” italiana non contiene nuclei significativamente interessati alla “rivoluzione liberale”; in un modo o nell’altro maggioranza e opposizione sono interne al regime. Per creare un nuovo blocco sociale da uno sterminato rigetto della politica, del potere e della cultura di potere ci vuole una grande creatività e, soprattutto, devi avere la possibilità di selezionare dei punti di forza sui quali dare tempo al paese di riunirsi, di fondersi come una lega. Il Polo sta scegliendo sempre più esigenze ultra-minoritarie. I suoi leaders non capiscono che bisogna oltrepassare la dimensione della politica e della cultura “ufficiale”. Il divorzio e l’aborto sono venuti fuori contro tutta la cultura ufficiale: io allora non avevo Il Mondo, né L’Espresso, avevo Abc e un Abc con 90mila copie di vendita che portammo fino a 1 milione di copie. Aborto e divorzio s’imposero solo quando divennero cultura “popolare”: quando tutti ebbero qualcosa da dire su quei temi, in famiglia, sull’autobus, in sezione.
Oggi dire “eleggiamo il presidente all’americana, chiudiamo le baracche partitocratiche e creiamo due partiti” significa popolarizzare una elaborazione culturale più complessa. La frattura nel paese non puoi certo crearla tra i due turni di coalizione o il turno unico, eccetera, di cui capisce solo qualche politico, e alla gente non importa niente. Un’opposizione che ha la chance di poter essere in sintonia con l’80 per cento dei cittadini e decide di non utilizzarla vuol dire che prende in considerazione i sondaggi solo quando sono insignificanti o errati. Mi domando: non è sintomo di minoritarismo e di analfabetismo politico considerare centrale il problema cattolico, quando Ruini al massimo può spostare il 5 per cento del voto cattolico, cioè l’1 o il 2 per cento dell’elettorato italiano? Quando in una situazione di monopolio comunicativo quotidiano concesso a quel se non amatissimo comunque rispettatissimo Papa che parla sempre di divorzio e di aborto, l’80 per cento degli italiani continua a dichiarare che oggi voterebbe comunque per l’aborto e il 90 per cento per il divorzio? Oggi dunque, come vent’anni fa, ci ritroviamo all’opposizione del governo e all’opposizione dell’opposizione. Perché c’è un’opposizione di regime, il che non vuol dire che non possa essere un’opposizione di buona fede, ma solo che essa condivide gli interessi e le culture di regime. (…)
D. Mi sembra che tu stia evocando la prospettiva di una nuova marcia solitaria nel deserto. Ma ammesso che vi sia la possibilità di provocare un’ulteriore “rottura” nella vicenda politica italiana, non si rischia di giungervi di nuovo impreparati? Dov’è una classe politica alternativa? Dov’è un programma riformatore?
R. Nella pittura, nella scultura, nella poesia il nuovo è per definizione il salto nel buio. Il nuovo comporta l’esercizio del rischio d’impresa, che esiste in politica e non solo sul mercato. Poiché il nuovo è sempre differente da ciò che soggettivamente hai immaginato, il rischio del nuovo esiste e non può essere soppresso. Anzi, è proprio su questo rischio che occorre investire. Ma i nostri veri problemi sono altri. Sfido chiunque ad affermare che i nostri problemi non siano quelli di capire come si fa a vincere partendo dalla clandestinità a cui siamo costretti. Ti sei chiesto perché Storace abbia affermato che è in atto un genocidio culturale dei radicali e che occorre interromperlo ad ogni costo? La nostra politica è tabù e deve restare tabù. Non si può mandare in televisione chi dice che sul finanziamento pubblico sono dei truffatori. Non puoi consentirti di mandare in video chi dice a Scalfaro: tu, secondo la Costituzione, sei un traditore e un usurpatore. Non puoi permettertelo. Affermare ciò non è fare del vittimismo. E’ il tentativo di comprendere perché hanno bisogno che quanto proviene dai radicali debba restare tabù. Al tempo del divorzio, io dicevo che, se il paese avesse iniziato a discutere il problema, si sarebbe vinto. Oggi vale la stessa cosa.
E poi, nonostante la censura più assoluta, bisogna dirlo una volta per tutte: nel paese la “cosa” radicale esiste. Ha una sua sostanza sociologica, strutturale, economica. Di fronte al fallimento della forma “partito di massa” e al tramonto del “partito giacobino”, rappresenta l’unico modello di organizzazione militante che conserva una sua attualità. E’ la forma organizzata dell’impegno civile di una minoranza; ma di un impegno che assume forme “empiriche”, non ideologiche e non esclusive. Negli anni ’60 questa minoranza comprendeva non più di 30 “quadri” in tutta Italia; oggi saremo 150.
Ma di questi, almeno 50 posseggono il know-how per essere una classe dirigente di ricambio, per assumere ed esercitare positivamente funzioni di ministro o di primaria responsabilità istituzionale. Oggi esiste una radio che ha scritto una pagina nella storia dell’informazione di questo paese, e la cui valutazione commerciale ammonta a diverse decine di miliardi. Vi è un Centro di produzione che, a partire dall’audiovisivo, è l’unica memoria orale della storia italiana dell’ultimo ventennio. Il nostro Centro d’ascolto è la più importante “baracca” europea nel campo della valutazione del funzionamento e dell’impatto politico dell’informazione pubblica. Con Agorà (il server più antico e tecnologicamente ritenuto ancora oggi tra i più validi) abbiamo per primi intuito l’importanza che la comunicazione in rete avrebbe assunto, anche per le istituzioni e la politica. Non devi scordare che abbiamo già scritto nella storia della Repubblica italiana un Cahier de doleance. Dei 50 referendum presentati, 30 sono la trascrizione e la traduzione delle riunioni di questi “ignoranti” di piccoli imprenditori del Triveneto, abruzzesi e pugliesi; delle loro esigenze primarie: il non poter usare il lavoro temporaneo, il non poter assumere, eccetera. Tutte cose anche più determinanti delle tasse. Quale altro soggetto organizzato sarebbe stato in grado di raccogliere 12 milioni di firme autenticate di elettori italiani o – come nel 1993 – di “produrre” in due mesi 40 mila iscritti con circa 14 miliardi di introito? Chi in Italia è al corrente che il nostro Call center produce quotidianamente, per tutta la durata dell’anno, poco meno di 10 milioni d’iscrizioni o contributi? E quale altra forza sarebbe stata in grado di organizzare, per oltre 4 mesi, una campagna di sostegno ai diritti di Radio radicale in grado di coinvolgere circa 12.355 cittadini in uno sciopero della fame collettivo?
Allora, quando si parla di “liberali italiani”, bisogna riconoscere che, anche tenendo conto della storia del Pli, la "cosa" radicale rappresenta l’unica struttura in grado d’incidere realmente nella vita del paese, a fronte di un folto manipolo di “liberali ufficiali” che rappresentano esclusivamente se stessi o poche decine di militanti, nel territorio di elezione di questi notabili. Ribadisco: nella durata, nella continuità e nei momenti fondamentali della lotta politica nazionale non vi sono stati che i comunisti e i radicali. Ma oggi questa realtà tanto importante quanto “clandestina” per la politica ufficiale non basta ad assicurare l’inevitabile compito di assicurare il passaggio da questo regime ad un’alternativa di “nuovo blocco sociale” e di riforma (o rivoluzione) liberale dello Stato e della società. Manca ed è da conquistare la certezza del collegamento fra la rivolta sociale del Terzo Stato, che coinvolge oltre i 3/4 delle “masse”, e una struttura in grado di assicurarne l’espressione e la guida politica. Cioè il detonatore di questa potenziale miscela esplosiva. Fin quando questo non sarà configurabile, non comprendo a che cosa il mio “rientro in politica” possa servire.
Da un’intervista di Gaetano Quagliariello per la rivista Ideazione