Passeggiate romane
Renzi scopre che nel Pd ci sono due linee per il dopo referendum
Non succede, ma se succede? A Montecitorio raccontano che Dario Franceschini e Pier Luigi Bersani sono tornati a parlarsi. Dietro non c’è nessuna manovra per “detronizzare” Renzi, raccontano sempre le stesse fonti, ma una comune preoccupazione: che fare se al referendum vincono i no? Già è questo l’interrogativo che si pongono un po’ tutti nel Partito democratico. Si sa che Matteo Renzi, al di là di quello che dice pubblicamente, nel caso di un insuccesso referendario è intenzionato a dire al capo dello Stato che per il Pd c’è solo la strada delle elezioni anticipate. Nessun governo di decantazione per tentare la riforma dell’Italicum. Nessun esecutivo che arrivi fino al 2017 nella speranza di rimettere in sesto il centrosinistra e di riorganizzare il centrodestra. Il premier e i suoi fedelissimi ritengono che il voto, seppur rischioso, sia la vera e unica soluzione. Contano sul fatto che alle elezioni generali i cittadini italiani ci penserebbero molto prima di affidare il paese nelle mani dei grillini, soprattutto dopo quello che sta accadendo a Roma con l’amministrazione Raggi. Ma una parte del Pd non la pensa affatto così. Quella parte del partito alla quale appartengono seppur con diverse sfumature sia Bersani sia Franceschini (ma non solo loro perché nei gruppi parlamentari è questo l’orientamento prevalente) ritiene che nel caso di dimissioni di Renzi sia necessario dare vita a un governo di larghe intese presieduto da un figura tecnica quale è il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Con un governo di questo genere ci si concentrerebbe su due fronti: quello economico per afferrare la ripresa e quello della legge elettorale per arginare il Movimento 5 stelle. E tra i “democrats” c’è già chi immagina una spaccatura: su un fronte i gruppi di Camera e Senato, favorevoli alla prosecuzione della legislatura, dall’altro il partito che è saldamente nelle mani del segretario-premier.
Road show di Di Maio nel mondo cattolico. Sempre a Montecitorio raccontano anche che i democratici di estrazione cattolica (gli ex margheritini e gli ex Ppi, per intendersi) siano molto preoccupati per Luigi Di Maio. Il vice presidente della Camera infatti si sta accreditando con grande successo tra i cattolici e nel mondo dell’associazionismo. Sono sempre di più le organizzazioni che lo invitano e lo cercano, mentre il Pd sembra aver tagliato i ponti con tutta quell’area. Ma dicono anche che il presidente del Consiglio, al contrario dei suoi colleghi di partito, non sia né preoccupato né troppo interessato alla cosa.
Quando rinascerà un nuovo Pd? Con regolarità ogni tot mesi Matteo Renzi preannuncia la riorganizzazione del partito e con altrettanta regolarità lascia cadere la questione. Occuparsi del Pd, dicono i maligni, lo annoia. Ma dopo le elezioni amministrative sembrava che fosse giunta la volta buona. Ne aveva parlato pubblicamente anche Luca Lotti. Il segnale lanciato dagli elettori aveva lasciato il premier sotto shock e a botta calda Renzi si era ripromesso di mettere veramente mano al partito. La riorganizzazione era prevista per prima della pausa estiva. Ma siamo arrivati ad agosto e non è successo niente. Anche questa volta il segretario ha lasciato perdere, convinto com’è che, in fondo, ciò che importa è che funzioni il governo. Quindi, meglio concentrarsi su quello. A meno che, dopo il manifesto per un nuovo Pd pubblicato ieri sul Foglio dal braccio destro di Luca Lotti, Antonio Funiciello, non ci sia una svolta improvvisa, dopo l’estate.