Il falso mito della “deportazione” dei professori
I docenti meridionali protestano – pacificamente a Palermo, in modo più rude a Napoli – contro i trasferimenti, che definiscono deportazioni. Questa volta si tratta soprattutto dei docenti della scuola primaria, com’è accaduto in un recente passato per quelli delle medie. Naturalmente è possibile che nella gestione della collocazione di un personale che conta centinaia di migliaia di persone si siano commessi degli errori, e se è così si tratta di verificare e correggere. Ma in linea generale la protesta punta a negare la sostanza, cioè la distribuzione territoriale dei docenti in base alle esigenze, cioè alla distribuzione territoriale degli alunni. Si tratta di un principio evidentemente razionale adottato in tutti gli altri paesi.
La scuola è un servizio che viene garantito agli alunni e agli studenti: le cattedre debbono essere dove servono per realizzare il diritto allo studio, mentre non esiste, in astratto, un diritto all’insegnamento dove si vuole e quando si vuole. Se mancano docenti nel nord e ce ne sono troppi, rispetto agli alunni e agli studenti, nel sud, è ovvio che siano necessari trasferimenti di docenti. Si può cercare di renderli meno difficoltosi, ma non si può invertire la logica, sostenendo che le cattedre debbono essere istituite dove abitano i docenti, anche se gli utenti della scuola stanno altrove. Anche senza ricordare il romanticismo da libro “Cuore” delle maestre dalla penna rossa che raggiungevano qualsiasi destinazione disagiata pur di prestare il loro servizio, non si può restare allibiti di fronte a maestri che prendono a spintoni la polizia e bloccano il traffico per rivendicare un “diritto” che è poi quello di lasciare gli studenti che ne hanno bisogno senza insegnanti. Davvero una brutta figura.