L'impossibile autoriforma del Csm
Adesso lo ammette il Consiglio superiore della magistratura (Csm) stesso, con le parole del vicepresidente Giovanni Legnini: il meccanismo spartitorio che regola la scelta dei magistrati destinati a incarichi direttivi e semidirettivi nelle procure e nei tribunali d’Italia è un problema che ha ricadute sull’efficienza e sulla credibilità del nostro sistema giudiziario. Già ammetterlo è qualcosa. Ma individuare un guasto non basta. E non bastano nemmeno norme farraginose o millimetriche e sghembe correzioni, che hanno il sapore della fogliolina di fico, come il nuovo regolamento del Csm approvato lunedì dopo un anno di trattative, litigi, compromessi e mediazioni proprio tra le correnti della magistratura. D’altro canto come si fa a pretendere che siano le stesse correnti a cancellare il meccanismo che le rende forti e che ne giustifica l’esistenza?
Il nuovo regolamento interno, ha detto Legnini, dovrebbe consentire di “abbandonare le peggiori pratiche” – cui il Csm si è evidentemente abbandonato per ammissione del suo vicepresidente – “soprattutto sulle nomine”. Ma è davvero così? Probabilmente no. Il nuovo regolamento, infatti, prevede un meccanismo che complica il procedimento di selezione dei magistrati dirigenti, elimina il sistema delle cosiddette nomine “a pacchetto” (più nomine contemporanee) rendendo meno evidenti (ma non più difficili) gli accordi di spartizione. In sostanza le spartizioni continueranno, ma saranno più complicate da individuare per occhi esterni al Csm. Visto che le correnti non si autoriformano, allora forse per recuperare credibilità ed efficienza dell’ordinamento giudiziario il Parlamento dovrebbe mettere in agenda una radicale riforma delle modalità previste per le elezioni del Csm.