Lamenti, progetti e (ancora) qualche speranza del M5s su Raggi
Roma. I grandi capi, Davide Casaleggio e Beppe Grillo, forse sperano ancora di poter aggiustare la cosa, anche se, piano piano, e quasi senza farsene accorgere, anche loro sono passati dal pieno sostegno al “è lei che decide”. Nel frattempo i parlamentari, malgrado gli inviti a non parlare, continuano a sfogare i loro umori con i giornalisti, solo che adesso chiedono di restare anonimi, e dunque in realtà non smettono di manifestare un confuso sentimento di preoccupazione e di panico (“Ignazio Marino uccise il Pd romano, lei può fare di meglio: può uccidere il Movimento cinque stelle nazionale”). Lei è Virginia Raggi, ovviamente, il sindaco attorno al quale si condensano tutti i crucci esistenziali di un Movimento in cui si comincia a parlare, anche se in modo disordinato ed emotivo, di exit strategy, di una via d’uscita che a febbraio o marzo potrebbe realizzarsi nell’abbandono del sindaco al suo impantanato destino. Possibile? Difficilissimo.
“Dovevamo entrare in Campidoglio, aprire i cassetti, e svelare tutte le schifezze delle precedenti amministrazioni. Come pillole. Una alla volta. Da giugno fino al referendum, una lunga campagna elettorale. Si doveva fare un’operazione di trasparenza e di propaganda sui debiti e sul bilancio del comune sfasciato dal Pd. E invece niente”, raccontano alcuni attivisti che frequentano, e hanno frequentato, il Consiglio comunale. “Dovevamo portare i bilanci del comune in tribunale. Avviare un percorso di fallimento. Questa era una cosa fortissima. Un segnale chiaro di cambiamento. E su questo era d’accordo anche Alessandro Di Battista, persino lui, che in realtà, spente le telecamere, è un cauto”. Diceva in quel periodo Roberta Lombardi, deputata, capocorrente del M5s, tessitrice di rapporti e di ambizioni romane: “Chi vota M5s sa che vota un movimento che non fa compromessi”.
Era novembre 2015, e la strategia del M5s, concordata anche a Milano, era basata – raccontano – su un principio molto semplice: o la va o la spacca. “Andati al governo di Roma avremmo dovuto fare un mezzo terremoto al giorno. Anche sbagliando. Ma sapevamo di dover dare subito segnali di novità e dinamismo”. Diceva dunque la Lombardi: “Se c’è una legge sui licenziamenti nella Pubblica amministrazione, la legge Madia, serva da monito sapere che verrà applicata”. E ci si riferiva ai dipendenti comunali, al corpo dei vigili urbani, e a quel sistema super indebitato delle ex municipalizzate (Ama e Atac, soprattutto) che nel 2013, secondo Marcello De Vito, altro dirigente romano del Movimento, era “una specie di Iri che va smontata pezzo per pezzo”. Ma allora poi cos’è successo? Risposta: “Per vincere, ma in realtà forse avremmo vinto comunque, sono stati fatti accordi con i sindacati di base, con l’Atac, con i rentier dei disservizi pubblici, alla fine persino con Cerroni. Loro ci hanno aiutato contro Marino. E noi li abbiamo cooptati al nostro interno. Grillo chiamava i sindacati ‘morti’, ‘zombi’, ‘venduti’… Ma se ora la Raggi non riesce a fare niente è anche perché è sottoposta a continue richieste e mediazioni… L’assessore al Bilancio lo voleva nominare la Lombardi, che è quella che ha stretto i legami con i sindacati. Ha contratto debiti, ha fatto promesse”. Si dovevano portare i libri in tribunale. “Ma la campagna elettorale poi l’abbiamo fatta rassicurando tutti”. E adesso, per adesso, è una palude esposta al ridicolo. (sm)