Scoperto un “cortocircuito” a Repubblica
Immaginate che un giorno Beppe Grillo scriva sul suo blog che in Italia c’è un problema: l’antipolitica. O che Matteo Renzi attraverso la sua e-news dica che c’è stato chi ha esagerato con la rottamazione. Oppure che Matteo Salvini accusi sui social chi soffia sul fuoco dei problemi dell’immigrazione alimentando la xenofobia. Qualcuno direbbe che hanno ragione, altri che hanno torto, in tanti soprattutto gliene chiederebbero conto, ma difficilmente affermazioni del genere cadrebbero nel silenzio generale. E invece, purtroppo, è ciò che è accaduto all’articolo di Repubblica di sabato che in prima pagina spiegava, dopo le assoluzioni di Roberto Cota e Ignazio Marino, che in Italia esiste un “cortocircuito” tra informazione e indagini giudiziarie. Ohibò. “Da quasi un quarto di secolo c’è un cortocircuito che condiziona la vita del paese – scrive il vicedirettore di Repubblica Gianluca Di Feo – Protagonisti ne sono la politica, la magistratura e i media, tutti in qualche modo responsabili di avere malinteso il proprio ruolo, influenzandosi l’un l’altro in un meccanismo dagli effetti perversi”. Il senso è che politici e amministratori dovrebbero essere giudicati sul piano politico per i loro errori e invece vengono spesso delegittimati sul piano morale-giudiziario da inchieste infondate, gonfiate dalla stampa pigra e compiacente.
“In molte occasioni anche noi giornalisti dobbiamo riconoscere di avere rinunciato a una funzione critica nei riguardi delle iniziative dei pubblici ministeri, prestandoci ad amplificare l’eco di procedimenti dalle basi dubbie, senza dedicarci all’approfondimento dei fatti e della rilevanza penale – conclude Repubblica – E soprattutto senza svolgere la nostra attività di controllo nei confronti del potere, di tutti i poteri”. Tutto perfetto e niente di nuovo, cose che da queste parti vengono scritte da quando, per usare un eufemismo, non andavano proprio di moda. Ciò che non torna è la trasformazione di quello che dovrebbe essere un mea culpa in un j’accuse o in una diluizione collettiva di responsabilità specifiche. Gli “effetti perversi” del “cortocircuito” mediatico-giudiziario post Tangentopoli sono visibili almeno dal novembre ’94, con la scoop proprio di Di Feo, allora pubblicato in prima pagina sul Corriere della Sera, sull’indagine del pool di Milano per corruzione a carico di Silvio Berlusconi, mentre l’allora premier presiedeva a Napoli un’assemblea internazionale.
Il primo governo Berlusconi cadde il mese successivo e l’assoluzione arrivò sette anni dopo. Una vicenda simile ci fu alla fine del secondo governo Prodi, caduto dopo l’inchiesta ai danni del ministro Mastella, anch’essa svanita nel nulla. Per oltre vent’anni i giornaloni, Repubblica in testa, sono stati il megafono delle procure, hanno fatto da cassa di risonanza a decine di inchieste fragilissime, hanno pubblicato paginate di intercettazioni spesso incomprensibili e soprattutto irrilevanti, hanno inventato la figura del “citato”. Si sono intrufolati nelle camere da letto dei politici, hanno provocato crisi internazionali per intercettazioni inventate (Berlusconi-Merkel), hanno chiesto le dimissioni di governatori per intercettazioni inesistenti (Crocetta).
Il circo mediatico-giudiziario non ha risparmiato nessuno, è diventato un metodo, applicato anche fuori dai confini della politica, alle imprese (Eni, Finmeccanica e Fastweb per citarne alcune) e alla ricerca scientifica (Capua). Con una truffa semantica le inchieste giornalistiche sono diventate la riproposizione di inchieste giudiziarie e di accuse dei pm, trasformando le redazioni in entità a metà tra la buca delle lettere e l’ufficio stampa delle procure. Da un ventennio i giornaloni parlano dell’autonomia della magistratura senza preoccuparsi della propria autonomia dalla magistratura. E’ importante quindi che la riflessione di Repubblica non cada nel vuoto, perché la stampa può interrompere questo “cortocircuito”. E’ parte della soluzione perché finora è stata parte del problema.