Che cosa intende Renzi quando parla di scissione dopo il referendum
Roma. “Se poi vince il Sì, e nel Pd qualcuno ha votato per il No, è abbastanza normale che quel qualcuno, specie se ha già fatto parecchie legislature, noi non lo ricandidiamo in Parlamento”. E queste parole, alle orecchie del giornalista, arrivano nette, pronunciate senza protervia ma con una fermezza contundente, attraverso il telefono, all’altro capo del quale sta una persona vicina a Matteo Renzi. C’è un limite di tre mandati parlamentari nel Pd, derogabile (ma anche no), ed è costume, prassi, quella di non ricandidare gli avversari più accesi, “come fece Bersani, ai suoi tempi, con gente come Stefano Ceccanti o Enrico Morando”, che erano sostenitori di Renzi e che Pier Luigi Bersani escluse dalle liste.
E insomma si capisce che adesso nel Pd ha forse inizio una commedia senza fine, o un dramma, di schermaglie e di stratagemmi, di doppi registri, di mezze parole e di sott’intesi, tutto un gioco pericoloso che ha per oggetto la riforma elettorale, il referendum e anche il futuro della segreteria. E infatti la minoranza turbolenta, che lunedì faceva balenare nell’ombra lo specchietto allusivo della scissione, ieri ha recuperato la grammatica della cautela: “Il Pd è casa mia, per cacciarmi devono mandare l’esercito”, ha detto Bersani. E così sia lui, sia Roberto Speranza, sia Gianni Cuperlo, i tre capi delle minoranze interne, adesso usano lo stesso doppio registro di Renzi, che alla direzione nazionale di lunedì ha aperto su tutta la linea per quanto riguarda la legge elettorale, ma che pure lascia dire ai suoi colonnelli: “Chi voterà No al referendum è fuori, non lo ricandidiamo”. Bastone e carota, dunque minacce e blandizie. Tutti gli attori sul palcoscenico giocano a pari e dispari con le due metà di sé, forse artefatte entrambe: Renzi ha bisogno che la sinistra del Pd porti voti al referendum, e la sinistra del Pd sa bene che l’unica scissione buona è quella che si minaccia ma non si realizza mai.
Pierluigi Bersani (foto LaPresse)
“Ma non se ne vanno… e dove vanno? Dove vuoi che vadano?”, scherzava ieri Stefano Esposito, senatore dei giovani turchi, alleato di Matteo Orfini. “L’unica cosa chiara è la linea D’Alema: utilizzare i comitati del No come piattaforma per un nuovo partito, per la scissione. Bersani, Speranza, Cuperlo, mi sembrano invece decisamente meno determinati. Forse oserei dire un po’ confusi, schiacciati tra Renzi e D’Alema”. E d’altra parte ieri, per molte ore, fino a sera, Lorenzo Guerini, il vicesegretario del Pd, è rimasto in attesa che Bersani, Speranza, Cuperlo e compagni gli comunicassero il nome del loro delegato per la nuova commissione che avrà il compito di individuare le modifiche “condivise” alla legge elettorale.
“Appena il nome ci sarà, si comincia. A spron battuto”, diceva Luigi Zanda, il capogruppo del Senato, lui che della nuova commissione farà parte assieme a Guerini e al presidente del partito, Orfini, e al capogruppo alla Camera Ettore Rosato. Ma il Foglio è andato in stampa con il nome – “come in un complicatissimo parto” – che ancora tardava ad arrivare. E nella minoranza ci si doveva infatti mettere d’accordo, mentre nei colloqui interni alle correnti avanzavano dubbi, s’inarcavano sopraccigli (in giornata il nome verrà ufficializzato). “Di solito nella politica italiana le commissioni si fanno per perdere tempo”, confessava il senatore Miguel Gotor, esprimendo così tutto lo scetticismo di chi consiglia a Bersani la linea dura. “L’Italicum andrebbe cambiato prima del referendum, non dopo, come invece vuole Renzi. E poi la riforma del Senato e quella elettorale vanno viste insieme, vanno considerate una cosa omogenea, come dice anche, con molta onestà intellettuale, il professor D’Alimonte, cioè il padre dell’Italicum”. Ma Bersani non è D’Alema, e forse nemmeno Gotor. “La scissione la accarezza, ma non la vuole”, dice Esposito. Così come Renzi fa minacciare credibili ritorsioni, ma pure vorrebbe fortissimamente la sinistra dalla sua parte. Schermaglie, allusioni, tattica. Per adesso.