La vittoria di Trump: lezioni per l'Italia
Che cosa devono imparare i soggetti politici italiani dall’esito imprevisto delle elezioni americane? Se ci si ferma agli aspetti più evidenti, ma forse più superficiali, dell’affermazione di Donald Trump, si può dire, paradossalmente, che è stato l’imprenditore newyorchese a imparare dalle vicende italiane. Anche in Italia c’è stato un imprenditore di successo, ma laterale rispetto all’establishment economico, che, facendo leva però più sull’ottimismo che sulla paura, ha riempito il vuoto determinato dalla crisi dei partiti e delle leadership che avevano dominato il campo per mezzo secolo, vincendo a sorpresa elezioni cruciali, anche se la maggior parte della stampa e degli osservatori lo considerava poco più di una macchietta. Anche in Italia c’è stato, e c’è, un uomo politico che ha rovesciato come un calzino l’assetto di una grande formazione politica, rottamando la sua classe dirigente precedente per presentare con successo un’immagine nuova e diversa rispetto a quella tradizione. Anche in Italia, dopo una crisi attribuita al primato della globalizzazione finanziaria e tecnocratica, è nato un movimento che si presenta come castigamatti di una “casta” autoreferenziale e propone scelte di radicale uscita dal sistema liberoscambista a vantaggio di un protezionismo isolazionista, anche al prezzo di rinunciare ai vantaggi della partecipazione a un assetto continentale centrato sugli strumenti finanziari comuni, compresa la moneta unica.
Il fatto che alcune delle caratteristiche più innovative e impressionanti della cavalcata di Trump trovino precedenti in esperienze italiane non significa però che le formazioni politiche del nostro paese abbiano percorso in anticipo una strada che ora è stata battuta dalla maggiore potenza economica e militare del mondo e tutto ciò non deve far dimenticare le differenze di fondo, a cominciare da quelle dimensionali, che corrono tra la situazione di una media potenza e una che esercita una leadership globale, tra un sistema istituzionale e politico in perpetua transizione e un assetto basato su un sistema di alternanza stabile che nessuna “rivoluzione politica” è in grado di scalfire. L’America è chiamata a impostare il quadro fondamentale delle relazioni internazionali, l’Italia deve interpretare il suo ruolo all’interno di queste coordinate, che la condizionano assai più di quanto essa possa condizionare. L’America può reggere a profonde trasformazioni dell’offerta politica senza che questo intacchi il sistema dell’alternanza, che in Italia è invece una realtà abbastanza recente e non consolidata, al punto da rischiare di essere travolto a ogni passaggio politico rilevante. Voler a tutti i costi dimostrare che esiste un filo conduttore tra la spinta che ha portato alla vittoria di Trump e quella che ha portato a un avanzamento in giro per l’Europa di alcune forze anti sistema rischia di essere un errore perché, tranne in alcuni casi, come l’Olanda, ogni paese ha una storia a se stante e le difficoltà riscontrate in questa fase dalle tradizionali forze politiche hanno motivazioni molto diverse tra loro. Lo stesso vale per l’Italia: non è automatico che la vittoria di Trump (che avviene in un contesto particolare di bipolarismo e di bipartitismo e che anche per questo è una storia molto diversa rispetto al quelle europee) si trasformi nel detonatore finale delle forze anti sistema. Ma dalla parabola di Trump esiste comunque qualche lezione che può essere trattata anche dal nostro paese, prima di tutte quella di dover necessariamente guardare più in profondità all’esigenza di proporre una narrazione che superi gli angusti limiti delle elìte politiche e informative e che riesca a trovare il modo di saldarsi alle correnti profonde dello spirito pubblico. L’esasperato uso demonizzante della categoria del “populismo”, per esempio, che stigmatizza in Italia e in Europa i tentativi (naturalmente non sempre efficaci) di andare in questa direzione, sottolinea l’ostilità permanente dell’establishment verso ogni tentativo di far penetrare le correnti profonde del sentimento popolare nell’arena della politica “che conta”.
Il più recente tentativo di questo tipo è quello condotto da Matteo Renzi, che ha reagito alla falsa rivoluzione grillina con una narrazione basata sull’innovazione del sistema politico e nel sistema politico (e che in questo momento in Europa è uno dei pochi leader potenzialmente in grado di miscelare insieme populismo, riformismo e vocazione alla globalizzazione). Il percorso di questo progetto, però, dopo aver raccolto il consenso popolare quando proiettava e trasmetteva una forte capacità innovativa, rischia di esaurirsi in un ritorno alle logiche autoreferenziali di una lotta politica interna a un partito, che se troppo reiterate potrebbero non trovare riscontri e attenzioni nell’opinione popolare. Il terreno obbligato della battaglia politica attuale, quello dell’innovazione di un sistema istituzionale obsoleto e paralizzante, non è certo il più adatto al dispiegamento dei caratteri popolari di una politica di trasformazione. Ma è proprio nelle difficoltà che si verifica se c’è la fibra, la capacità di fare leva su un elettorato che differenzia una prospettiva politica da un’invenzione propagandistica. Vale per tutti. Ma vale soprattutto per Renzi. Che oggi ha certamente un problema in più (avere un amico o un’amica alla Casa Bianca è sempre un buon aiuto per un leader italiano che vuole fare carriera). Ma da un certo punto di vista ha anche un’opportunità in più: nel deserto di leadership europee, è fondamentale avere un leader che riesca a realizzare in modo compiuto quel partito della nazione trasversale che Hillary Clinton ha provato a creare, ma senza fortuna.