Renzi ad Ancona per la campagna referendaria "Basta un Si" (foto LaPresse)

Il voto di domenica è anche un voto di libertà

Redazione

Dalla Concorrenza alle Popolari, il vero disastro democratico è la minoranza che si impone sulla maggioranza

La politica più proficua alla nazione consiste nella piena libertà della concorrenza”. Era il 1758 quando il francese François Quesnay inseriva questo precetto nel Tableau économique che avrebbe influenzato il liberismo progressista nei secoli a venire. Bene: la legge sulla Concorrenza presentata dal governo a febbraio 2015 è ferma da 14 mesi al Senato, dopo aver già perso pezzi alla Camera. Palazzo Madama la trattiene dal 7 ottobre dello scorso anno, ben 13 commissioni l’hanno rivista e inviata in aula ad agosto con oltre mille emendamenti. I senatori li esamineranno con comodo nel 2017, poi rispediranno il tutto ai deputati. Nel frattempo le lobby di farmacisti, tassisti, notai, avvocati avranno ridotto la concorrenza a un colabrodo, e il conto lo pagheremo noi in termini di costi, efficienza, investimenti. Ecco un esempio di ping-pong parlamentare del bicameralismo paritario che la riforma costituzionale intende abolire.

 

 

Intanto giusto ieri il Consiglio di stato ha sospeso la trasformazione in società per azioni delle banche popolari, in attesa che si pronunci la Corte costituzionale. Ad essa si erano rivolte alcune associazioni di consumatori che ora brindano “alla sconfitta dei poteri forti”. Associazioni che evidentemente hanno più a cuore il modello bancario della vecchia Popolare di Vicenza, con i dipendenti-sindacalisti-delegati portati in pullman alle assemblee nei palasport, anziché i clienti dall’altra parte dello sportello, costretti ad accettare mutui con incorporato l’obbligo di comprare azioni che oggi valgono carta straccia. Le fusioni sono in corso, altre già attuate, se si fermano certe banche rischiano il crac e non per colpa dell’Europa o della JpMorgan: ma che importa? Siamo la repubblica del ricorso, questo è quel che conta.

 

Andiamo avanti. Con la bocciatura della Corte costituzionale di alcuni decreti attuativi della riforma della Pubblica amministrazione saltano la cancellazione di aziende locali con più dirigenti che dipendenti, e salta la punibilità dei funzionari che non vigilano sugli impiegati che strisciano il badge (per sé e per i colleghi) e poi vanno al bar, al doppio lavoro, alla sala Bingo, o tornano a casa. Marianna Madia, firmataria della legge, dice che i ladri di stipendi pubblici continueranno ad essere perseguiti: sì, ma chi li controlla se i superiori la fanno franca, continuando anzi ad auto-attribuirsi i bonus di fine anno? Più importante però è come è nata la bocciatura: secondo la Consulta non bastava consultare le regioni, com’è stato fatto, occorreva il loro “sì” unanime. Questo in base alla parte della Costituzione che la riforma va a modificare. A oggi è bastato il “no” (e il ricorso) di un solo governatore, Luca Zaia del Veneto, per produrre gli effetti descritti su tutta la collettività. Questi tre esempi valgono più di mille chiacchiere: si vota su qualcosa che Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, definisce “disastrosa per la democrazia”. Ma il vero disastro democratico è la minoranza che si impone sulla maggioranza. L’interesse di pochi che blocca i diritti dei molti, sfruttando mandarinismi che sembrano fatti per tutelare non i deboli ma i furbi. Questo alla fine è il succo del voto di domenica; e si chiama semplicemente libertà.