Cantone a giudizio
Così l’anti corruzione diventa l’anti efficienza. Cassese ci dice perché l’Anac non fa bene il suo mestiere
Roma. Professor Sabino Cassese, il presidente dell’Autorità anticorruzione ha dichiarato in un’intervista al Corriere della Sera di sabato 21 gennaio scorso che l’Autorità non è responsabile dei troppi vincoli amministrativi e che chi non li vuole in realtà aspira ad avere le mani libere. “Sono in disaccordo. Penso che tutta la legislazione cosiddetta anticorruzione vada sottoposta ad una accurata revisione. Nei 220 articoli della disciplina degli appalti l’anticorruzione è evocata 95 volte. Come ha osservato un acuto studioso della materia, la disciplina dei contratti pubblici è scritta dall’angolo visuale della corruzione, ciò che fa perdere di vista gli altri obiettivi. La legislazione degli ultimi anni è sostanzialmente ispirata al principio del sospetto generalizzato, che è l’anticamera dell’autoritarismo. Non si tratta solo delle strozzature burocratiche di cui ha parlato il presidente del Consiglio dei ministri, ma anche della loro complessiva inefficacia”. Badi bene: il presidente dell’Anac fa capire che coloro che si schierano contro l’anticorruzione sono a favore della corruzione. “Penso che l’Anac non stia facendo bene il suo mestiere. Invece di esternare (taluni titolari di cariche non elettive hanno preso a comunicare con eccessiva frequenza, personalizzando e politicizzando la funzione, mentre i relativi collegi, di cui essi fanno parte, non ci fanno sapere che cosa pensano), l’Anac dovrebbe innanzitutto cercare di misurare la corruzione. So che è difficile. Ma non ci si può accontentare dei dati oggi disponibili, che sono quelli della corruzione percepita, cioè sono dati fondati su impressioni. Sarebbe invece utile sapere quante sono le denunce e quante le condanne per provincia, con riferimento almeno agli ultimi cinquanta anni. Poi, sarebbe utile raccogliere i dati disponibili sulla corruzione misurata (ve ne sono a livello europeo e due economisti li hanno utilizzati giungendo alla conclusione che l’Italia non è tanto più corrotta di altri paesi europei). Sapere come evolvono nel tempo, come sono distribuiti sul territorio i fenomeni corruttivi insegnerebbe molto. Poi bisognerebbe aver dati meno impressionistici sugli snodi e sui luoghi dove si sviluppa la corruzione. Paragoni stranieri sarebbero educativi: l’India è un paese molto corrotto, e per questo ha molto studiato la corruzione. Così come sarebbe utile valutare quel che si può imparare da studiosi come Susan Rose-Ackerman, una professoressa di Yale che ha dedicato molte ricerche al fenomeno. Insomma, ricorda Einaudi e il ‘conoscere per deliberare’? Invece, l’Autorità anticorruzione procede alla cieca, assume che tutti siano sospetti di corruzione, che questa si possa annidare dovunque”.
Ma la corruzione è per sua natura occulta. “Certo, ma questo non vuol dire che non abbiamo elementi per la diagnosi. Ci troviamo nella situazione di un medico che deve valutare i sintomi, prima di ordinare analisi generalizzate o dare medicine a tappeto. L’Autorità è nella situazione nella quale si troverebbe una banca centrale che, dovendo regolare il credito, non sapesse quale è la massa degli affidamenti o la quantità delle sofferenze”. Quali sono gli errori che la classe politica ha fatto costruendo un’apposita Autorità? “Non si tratta solo di errori, ma innanzitutto di furbizie. Creando questo moloch, la classe politica si è sgravata del compito della buona amministrazione: a tutto pensa l’Anac. Si è ripetuto quel che si è fatto per la mafia. Si sono creati gli specialisti dell’antimafia. Ma se gli specialisti non ci dicono neppure quale è la diffusione della malattia, non sapremo mai neppure quanto efficace è la loro azione. Così si produce un circolo vizioso: si evoca l’uomo nero, si invoca il cavaliere bianco, ci si affida a lui, ci si libera dell’impegno collettivo, solidale, di tutti, di ridurre (eliminare è impossibile: prendete per esempio quel che accade nei paesi meglio gestiti) la corruzione. Basta vedere quel che è successo con l’attenuazione dell’attenzione della Corte dei conti, che dovrebbe – essa soprattutto –svolgere il compito di assicurare una buona amministrazione. Sappiamo o siamo in grado si sapere di quanto è diminuita la corruzione da quando esiste l’Anac (o da quando esiste l’autorità che l’ha preceduta)?”.
Ma quali sono le conseguenze di questo stato di cose? “La prima è la relativa stagnazione delle opere pubbliche. La seconda l’allungamento delle decisioni. La terza l’imposizione di obblighi amministrativi spesso macchinosi anche su amministrazioni minuscole. Una montagna di carte, spesso inutili. Per contrastare la corruzione si è a priori rinunciato all’efficienza, ha osservato uno studioso del tema”. Ma l’Anac non potrebbe rimediare a questa situazione, intervenendo con maggiore attenzione, con criteri più proporzionali, lasciando da parte i moscerini e cercando di prendere gli avvoltoi? “E’ proprio quello che auspico. Ma l’Anac è a sua volta una entità ambigua. Dice di esser un’autorità indipendente, ma opera anche d’intesa con i ministeri, o per loro delega; dà pareri al governo; suggerisce le politiche. E’ un collegio, ma ha anche un presidente con poteri propri. E’ chiamata a dare un ‘bollino’ di non corruzione, ma non ha gli strumenti per farlo con sicurezza, perché dovrebbe trasformarsi in organo di tipo giudiziario (corre quindi il rischio di fare degli scivoloni). Ha strutture inadeguate. Opera quotidianamente sui confini che dividono la sua azione dal Dipartimento della funzione pubblica, dalla Corte dei conti, dalle procure, con il pericolo di continue sovrapposizioni”. Ma allora, secondo lei, che bisognerebbe fare per ridurre la corruzione? “Molti sono i rimedi efficaci. Mi limito a segnalarne uno: dotare stato, regioni e comuni di personale tecnico qualificato e ben pagato, perché molta corruzione dipende dal fatto che i poteri pubblici debbono ricorrere all’esterno, non hanno all’interno i mezzi per valutare, controllare, programmare, fare progetti, di massima ed esecutivi”.