Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi (Foto LaPresse)

Passeggiate romane

Renzi è nella war room: la minoranza si agita, il Cav. medita

Redazione

I bersaniani pensano che con il rischio della scissione l'ex premier si ammorbidirà e darà loro un po’ di posti tra i capilista bloccati. Ma il segretario del Pd non sembra intenzionato a cedere

La minoranza bersaniana del Partito democratico ha deciso di declinare l’offerta di Massimo D’Alema, almeno per ora. Roberto Speranza e compagni pensano infatti che con il rischio della scissione Matteo Renzi si ammorbidirà e darà loro un po’ di posti tra i capilista bloccati. Ma la realtà potrebbe essere diversa da quello che immaginano i bersaniani. Al momento il segretario del Pd non sembra affatto intenzionato a cedere su questo punto. Renzi è convinto che i voti nel sud li abbiano fondamentalmente Massimo D’Alema e Michele Emiliano che sono già in uscita e ritiene invece che il resto della minoranza abbia pochi consensi. Per drenare qualcosa a sinistra metterà in lista delle altre personalità, ma è assai difficile che Speranza, tanto per fare un nome, riveda il suo seggio alla Camera. E comunque, secondo i sondaggi riservati del Nazareno un’eventuale liste D’Alema non arriverebbe a due cifre.

 

Ma la preoccupazione per le liste che il segretario ha in mente di fare contagia anche esponenti della maggioranza interna che hanno più di quindici anni di legislatura alle spalle. In diversi temono che il segretario del partito non darà loro la deroga per potersi ricandidare. Per questa ragione Beppe Fioroni e altri esponenti di lungo corso del Pd hanno in animo di controproporre a Renzi una mediazione: la loro candidatura al Senato. Lì non avrebbero nessun seggio sicuro e dovrebbero raccogliere consensi. Peraltro anche il leader è tentato di candidarsi al Senato, che nella prossima legislatura assumerà inevitabilmente un ruolo chiave, soprattutto nel caso in cui si andasse alle urne senza una riforma elettorale ma con le leggi scaturite dalle due sentenze della Corte.

 

Ieri, comunque, Matteo Renzi è andato al Nazareno e ha riunito la war room del Partito democratico per capire quali siano le mosse migliori per evitare gli ostacoli che si frappongono alla sua decisione di andare alle elezioni anticipate. Per questa ragione il segretario ha pensato di non aspettare le motivazioni della sentenza della Corte per avviare il confronto sulla legge elettorale. Attenderle significherebbe perdere dell’altro tempo. Il leader vuole pressare Silvio Berlusconi per metterlo di fronte alla presa d’atto che difficilmente dalle trattative uscirà una legge migliore di quella consegnata dalla Consulta. Basterebbero pochi aggiustamenti e si potrebbe utilizzarla. Messaggeri del Pd hanno lasciato intendere agli ambasciatori del leader di Forza Italia che andare a un’estenuante mediazione in Parlamento potrebbe essere pericoloso per Berlusconi, dal momento che sia i grillini che la minoranza del Partito democratico vogliono eliminare i capilista bloccati. E sulla legge elettorale i voti segreti sono sempre possibili, con tutte le incognite che comportano.

 

Il 13 febbraio il Pd nella sua Direzione tirerà le somme della trattativa sulla riforma elettorale e indicherà le prossime mosse del partito. Ma non tirerà le conseguenze quel giorno. Insomma, non dichiarerà chiusa la legislatura. Piuttosto Renzi in quella sede tenterà di mettere dei punti fermi in modo da agevolare il percorso verso le elezioni anticipate.

 

Calcoli alla mano, al Nazareno hanno valutato due diverse opzioni: 30 aprile e 25 giugno. Per andare a votare nella prima data utile si dovrebbero sciogliere le Camere entro l’otto marzo. E nonostante il leader del Pd non si fidi di tirare le cose troppo per le lunghe, si rende comunque conto che dovrebbe forzare troppo la mano al Capo dello stato, il quale gli ha nuovamente fatto sapere che per andare alle elezioni anche modificando poco o niente della legge della Consulta ci vuole “un accordo politico”. Renzi però è convinto che Mattarella abbia spazi di manovra limitati. Se il Pd decidesse che la legislatura è giunta al termine il presidente della Repubblica non potrebbe certamente incaricare un ennesimo governo che non sia passato dal vaglio del voto popolare.

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