Lega senza nord
Così Salvini ammaina i vecchi simboli e reinventa un partito più nero che verde. Una cena a Pontida
Roma. Una cena a Pontida, ma quasi in clandestinità, senza clamori e senza manifestazioni, niente slogan né bandiere, ampolle o corna celtiche, per festeggiare gli 850 anni del giuramento con il quale nel 1167 si formò la Lega lombarda, quella di Alberto da Giussano, il personaggio storico che all’incirca venticinque anni fa Umberto Bossi quasi reiventò trasformandolo in quello che non era, cioè in un nativista settentrionale in camicia verde, un irredentista del nord. Ieri sera, al ristorante la Marina, una locanda che è da anni punto di riferimento dei leghisti in provincia di Bergamo, si è riunito lo stato maggiore del partito, attorno a Matteo Salvini, in uno strano clima dimesso e quasi carbonaro, con gli stemmi del sole delle Alpi, le bandiere e persino lo striscione più identitario che la Lega possieda (“Padroni a casa nostra”) ammainati, messi da parte, raccolti e portati via dal famoso prato di Pontida, quello delle manifestazioni e dei grandi discorsi padanocentrici, che è rimasto nudo, solo prato. E insomma via tutti i simboli di un’epoca che sembra più antica di quella della battaglia di Legnano e che Salvini, tra mille timori, difficoltà e resistenze, sembra voler superare consegnando la vecchia Lega nord a una profonda rivisitazione non solo ideologica ma anche estetica. Non più piccolo ma tosto partito indipendentista del nord, inebriato di mitologia celtica e simbolismi più o meno improbabili, ma grande partito nazionalista, più nero che verde, anti islamico, capace di triangolare con la Russia Unita di Putin e con il Fronte nazionale di Marine Le Pen.
Ma la strada che porta Salvini a cancellare dal suo partito la parola nord – mentre si accinge a un congresso che senza alcun dubbio lo riconfermerà segretario a fine maggio – è complicata, e sottoposta a mille inciampi, incognite e resistenze.
Il capo della Lega deve muoversi con cautela, è costretto dunque a dissimulare, e talvolta a giocare persino un doppio ruolo, quasi ad assumere una doppia personalità. Al sud infatti rinnega e chiede anche scusa per gli errori del passato, come ha fatto qualche settimana fa a Napoli, per il razzismo più volte evocato contro quei terroncelli cui adesso deve chiedere i voti. Mentre al nord promuove una trasformazione lenta, timorosa dei rigurgiti identitari di quel popolo padano che per vent’anni si è gonfiato delle parole ruvide di Bossi sui “fucili padani”, sul “fora de bal”, su “va cagà terùn”, sul “federalismo” e su quella “secessione” che resta ancora la finalità ultima della Lega nord, scolpita addirittura all’articolo uno dello statuto. Così mentre ad Avellino scoppia un parapiglia che rimbalza fino a Milano e Varese per un post, pubblicato su Internet, di un club “Noi con Salvini”, cioè il franchising sudista della Lega – un testo che recita così: “Il congresso segnerà una svolta storica: fuori dal partito il dinosauro Bossi e nuova dimensione del movimento politico che diviene sovranista e nazionale, eliminando il riferimento all’indipendenza della Padania” – mentre dunque la base settentrionale si rivolta sui social, chiede smentite e spiegazioni, e mentre Salvini si vede costretto a far sospendere Massimiliano Finamore, il suo coordinatore ad Avellino, mentre insomma le contraddizioni sembrano stringere Salvini in una morsa, lui va a Pontida, la Norimberga scenografica della Lega secessionista. Ma lo fa in sordina, senza strombazzamenti e senza telecamere, senza manifestazioni e senza striscioni, senza cori e senza bandiere, quasi senza popolo. Una concessione ai vecchi riti e alle vecchie abitudini, la conferma che la trasformazione della Lega procede lentamente, a piccoli passi cauti. Dunque solo una cena, con tutti gli altri colonnelli del partito, con Maroni, Calderoli e Giorgetti, ma – attenzione – senza Umberto Bossi, il vecchio capo che non è stato nemmeno invitato, e che al contrario, il 10 marzo, in quella stessa locanda che ieri ha ospitato Salvini pronunciava queste parole di fronte a una sessantina di commensali: “L’ho fatta io, la Lega. E mi dispiace vederla andare a scatafascio”.