Il professor Prodi e la post politica
Non è più uno scontro tra destra e sinistra. Dall’Ulivo alla nuova realtà
Il professor Romano Prodi non è mai stato un “democristiano” in senso tecnico, e tantomeno nel senso di un patriarca di partito. E’ stato un ministro di governi democristiani, è stato intellettuale e tecnico organico a una forma della democrazia politica di cui i partiti erano contenuto e struttura. Poi è stato il creatore dell’Ulivo. O meglio il rassembleur che ha dato concretezza a un’idea che era stata (soprattutto) di Nino Andreatta: un’idea già allora, in nuce, post partitica. L’Ulivo come superamento di ex Pci ed ex sinistra Dc, come superamenti di cespugli e casette madri identitarie. Dentro una forma fluida, tenuta insieme dal Programma. Dal “che fare”. Se fosse preveggenza, capacità di intuire in che direzione stavano evolvendo le democrazie politiche novecentesche, o se fosse più che altro un sottile ma profondissimo disprezzo per i partiti e la “partitocrazia”, è difficile dire. Fatto sta che l’Ulivo è stato anche un tentativo, forse non del tutto consapevole, non del tutto realizzato, di superare la forma partito.
Ma Romano Prodi, europeista convinto, ha sempre vissuto e ragionato all’interno di una visione politica che i partiti, la destra contro la sinistra, conservatorismo contro progressimo-riformismo li prevedeva. Per questo è interessante, pur dentro il contesto occasionale di un’intervista a commento dell’elezione di Emmanuel Macron, che ieri a Repubblica l’ex premier, fondatore dell’Ulivo ed ex presidente della Commissione europea abbia liquidato i “vecchi partiti” come “macchine elettorali senza più una funzione sociale”. E soprattutto abbia sottolineato che “la dialettica, oggi, non è più tra destra e sinistra, ma tra apertura e chiusura verso il mondo globale”. Un’affermazione non per forza “macroniana” – il professore non ha ovviamente bisogno di accreditarsi – ma che coglie, dall’alto di un’esperienza politica lunga e di marca progressista, il dato di fatto di un mondo cambiato. E’ come se Prodi dicesse, anche o soprattutto a certi suoI attardati compagni di viaggio: sveglia, non c’è più niente di tutto quell’apparato ideologico. E non stupisce che Prodi leghi questo giudizio a uno ancora più generale e radicale, a proposito delle nostre società: “Lo scontro non è più tra proletariato e borghesia, ma tra ceti urbani acculturati e periferie subculturali”. Il futuro delle democrazie e delle nostre società si gioca tra mondo aperto e mondo chiuso, tra possibilità della trasformazione sociale ed economica o stagnazione. Per interpretare questa nuova fase serve una nuova cultura, prima ancora di nuovi programmi. Che lo dica un politico che a lungo ha lavorato per superare la sinistra tradizionale, è un segnale interessante.