Che cosa non va nello ius soli
Una sanatoria equilibrata, ma evitiamo di rinsaldare l’alleanza Lega-M5s
La legge sullo ius soli, che affronta l’ultima lettura al Senato in un clima piuttosto teso, viene presentata come una misura necessaria per dare soluzione a vicende personali e famigliari di immigrati stabilmente residenti. I sostenitori della legge insistono a definire la situazione italiana anomala rispetto a quella prevalente in Europa, gli oppositori denunciano l’introduzione di princìpi che finiscono con l’attirare nuova immigrazione. Quello che nessuno dice è che in Italia lo ius soli c’è già: nel 2015 la cittadinanza è stata concessa a circa 160 mila immigrati, 65 mila dei quali l’hanno ottenuta in base alla norma che riconosce questo diritto a chi raggiunge i 18 anni essendo nato e avendo risieduto sempre in Italia. Non si tratta dunque di introdurre un principio, che nei termini della legislazione vigente esiste già, ma di definirne in modo nuovo le procedure di applicazione, e qui c’è spazio per un esame critico di un provvedimento. La legge in discussione prevede che i figli di almeno un genitore con permesso di soggiorno di 5 anni, nati in Italia, ottengano automaticamente la cittadinanza. Inoltre la cittadinanza verrà concessa anche ai minori di 12 anni che abbiano completato un ciclo di studi in Italia, anche se nati all’estero, il che non c’entra affatto con lo ius soli.
L’ampiezza delle condizioni richieste fa calcolare in circa 800 mila (su un milione di residenti) gli immigrati che riceverebbero immediatamente la cittadinanza. Si tratta di una colossale sanatoria, che non richiede, come accade per esempio in Germania, alcun “corrispettivo”, come la conoscenza della lingua (che vale solo per la cittadinanza che deriva dalla partecipazione a corsi scolastici, che sarebbero meno di un quinto dei regolarizzati), o l’esplicita accettazione dei princìpi sociali e civili della convivenza. Probabilmente una sanatoria è necessaria e utile, ma sarebbe opportuno collegarla a qualche corrispettivo soggettivo. Invece il fatto che la norma sia organica, cioè applicabile anche per i futuri immigrati, apre una questione non secondaria e sembra dar ragione a chi ritiene che essa rappresenti un’ulteriore attrattiva per l’immigrazione clandestina, che è già assai ampia e poco controllata. Il processo di integrazione è un obiettivo serio ma difficile, che va perseguito con un sistema premiale, che riconosca i progressi nell’accettazione dei valori della società italiana (previsti dalla Costituzione) con passi successivi, culminanti nella concessione della cittadinanza. Invece la logica del (quasi) tutti cittadini insita nella legge prescinde dall’esigenza di implementare e controllare quel processo. I limiti del provvedimento, che dovrebbero preoccupare anche chi punta a un’integrazione reale e quindi progressiva e controllata, lasciano spazi immensi alla polemica di chi, come la Lega nord e ora il M5s, vede la stessa integrazione come il fumo negli occhi. Sul piano politico non sembra molto saggio offrire un terreno di convergenza alle formazioni sovraniste, peraltro con norme che non sono del tutto convincenti nemmeno per chi con quei gruppi non ha nulla a che fare. Quando si raccoglieranno le firme per un referendum abrogativo di questa legge, si salderanno posizioni critiche diverse, tendenzialmente maggioritarie, e aver approvato la legge con il voto di fiducia lascerà un segno di arroganza immeritato su Paolo Gentiloni.
L’obiettivo politico che viene perseguito dal Pd (cioè quello di recuperare un rapporto con la sinistra dell’arco parlamentare, particolarmente utile nelle settimane che precedono il ballottaggio nei comuni chiamati al voto) anche se venisse raggiunto, sarebbe minoritario rispetto al danno causato dalla possibile raccolta di un raggruppamento di tutte le altre opposizioni. Siccome la legislatura non è agli sgoccioli si sarebbero potuto cercare soluzioni meno divisive e adottare una procedura più inclusiva. Si è scelta la strada decisionista, ma le conseguenze potrebbero essere nefaste.