Quello che Bersani si ostina a non capire del Movimento 5 Stelle
Nemmeno le recenti aperture a destra dei grillini fanno ricredere l'ex segretario del Pd che continua a ragionare in maniera ideologica
Pier Luigi Bersani continua a ripetere un po’ ossessivamente che l’errore di fondo di Matteo Renzi sarebbe quello di non essersi accorto del pericolo di “destra”. La sua ricetta è quella di un dialogo con il Movimento 5 stelle allo scopo di isolare Silvio Berlusconi. Forse, però, la sua fobia monomaniaca lo ha indotto a non riconoscere “la vacca in corridoio”, cioè a non comprendere che il movimento grillino ha caratteristiche permanenti di tipo anti-istituzionale e antidemocratico, mentre il suo presunto orientamento a sinistra è puramente tattico e variabile, come dimostrano le più recenti giravolte quasi xenofobe.
È un vizio antico del massimalismo, che quasi cent’anni fa espulse Filippo Turati e Giacomo Matteotti perché sospettati di voler trattare con Giovanni Giolitti. Intanto i fascisti (guidati da un ex massimalista) assalivano le Case del popolo e si è visto com’è andata a finire. Fortunatamente la storia non si ripete nei suoi aspetti più drammatici, ma resta l’impressione che invece una replica farsesca di quelle vicende tragiche non ci sarà risparmiata. Alla base di questo errore di ottica c’è, oltre al pregiudizio etico-estetico antiberlusconiano, una lettura ideologica dell’insoddisfazione e della rabbia dei ceti che si sentono declassati o impoveriti. A quella reazione il massimalismo tende a dare un’interpretazione unidirezionale, la considerano un presupposto di una spinta rivoluzionaria o almeno progressista. La lezione del sostegno a Donald Trump delle aree di disagio sociale delle zone industriali, la base sociale della Brexit, persino il relativo successo di Marine Le Pen nelle antiche roccaforti rosse della Bretagna non hanno insegnato nulla. Si pensa sempre che la responsabilità sia di una sinistra che non ha saputo intercettare la rabbia con una politica più radicale, dimenticando che questo contrasta con i vincoli oggettivi derivanti da una funzione di governo.
Con l’indignazione e la rabbia bisogna fare i conti, naturalmente, ma senza cedimenti a concezioni puramente demagogiche, almeno se si vuole prospettare una ipotesi politica di governo e non solo competere per le seconde o le terze file, in uno spirito di testimonianza puramente autoreferenziale. Bersani, che ha governato una regione e ha coperto incarichi ministeriali, lo sa benissimo, ma, accecato dalla sua visone unilaterale, si immagina ancora un dialogo impossibile con i 5 stelle, che peraltro lo rifiutano sdegnosamente. Sarebbe ragionevole pensare che le più recenti esternazioni grilline, che puntano esplicitamente a recuperare consenso a destra, facciano ricredere Bersani. Ma quando c’è l’ideologia di mezzo non è detto che ciò che è ragionevole prevalga sulla faziosità settaria. Rimettere al loro posto reale Berlusconi e Grillo porterebbe a riconoscere che la scissione del Partito democratico era basata su un abbaglio, ma questo Bersani, anche se ne fosse intimamente convinto, non lo ammetterà mai. Così, per giustificare un errore ne commette tanti altri, sottraendo forze vitali a una prospettiva, già di per sé difficile, di rianimazione della democrazia italiana.