Col cuore o la testa?
La “mancanza di distanza”, diceva Weber, è un peccato mortale per un uomo politico. Italiani e potere
Professor Cassese, la scena politica italiana è dominata da tradimenti, umori, rancori, passioni. Quale differenza da quella tedesca! Lì la Merkel amministra impassibile, toglie abilmente – e con qualche giravolta – dalla sua strada tutte le trappole (il nucleare, la questione dei migranti, il matrimonio tra persone dello stesso sesso) e invita i suoi connazionali a vivere “gut und gerne”, bene e volentieri nel proprio paese.
Solleva un problema non da poco. La politica si fa col cuore o con la testa? Richiede passione o discernimento? E’ calcolo o improvvisazione, arte o scienza? Si può solo imparare facendola o anche insegnare?
Piano, piano: lei che insiste sempre nel “distingue frequenter” ora butta lì tante questioni enormi, di cui si discute da millenni.
Mi sono lasciato trascinare dalla sua domanda. Facciamo una pausa e cominciamo dai classici. Nell’ultimo anno della sua vita, Max Weber, il grande sociologo tedesco, fece una conferenza intitolata “Politik als Beruf”, la politica come professione (e vocazione). Lì diceva – mi consenta una citazione – “si può dire che tre qualità sono soprattutto decisive per l’uomo: passione, senso di responsabilità, lungimiranza. Passione nel senso di dedizione appassionata a una causa”, ma non “la semplice passione”, che non è sufficiente. E’ necessaria – continuava Weber – anche “la qualità psicologica fondamentale dell’uomo politico della lungimiranza, vale a dire della capacità di far agire su di sé la realtà con calma e raccoglimento interiore: dunque, la distanza tra le cose e gli uomini. La “mancanza di distanza”, semplicemente in quanto tale, costituisce uno dei peccati mortali di ogni uomo politico”.
Dunque, vuol farmi capire che la “mancanza di distanza” è il peccato mortale degli uomini politici italiani?
Sì, voglio dire che stiamo attraversando una fase nella quale pare che i politici italiani abbiano perduto questa capacità. Mi permetta un’altra citazione, andando indietro, a un “Entretien” di Diderot, scritto tra il 1770 e il 1780, e intitolato “Paradoxe sur le comédien”. Lì il grande illuminista parla dell’attore, ma poi allarga il suo discorso anche ad altri soggetti. Afferma che “le lacrime dell’attore scendono dal cervello, quelle dell’uomo sensibile montano dal cuore” e dell’attore dice “non è il suo cuore, è la testa che fa tutto”. E aggiunge subito dopo: “L’uomo sensibile (con questo Diderot vuol indicare l’uomo dominato dalle passioni) non sarà un grande re, né un grande ministro, né un grande capitano, né un grande avvocato, né un grande medico”.
Avvicinare politico e attore. Non comporta una sorta di giudizio negativo sui politici?
Non credo. Il politico deve rappresentare, deve cioè portare idee, indirizzi, orientamenti che non sono suoi, ma sono di una collettività, della parte della popolazione che rappresenta. Non dimentichi che rappresentanza (quella del politico) e rappresentazione (quella dell’attore) hanno la stessa radice. Molti studiosi francesi ed anglosassoni si sono soffermati su questa somiglianza.
Secondo lei anche Weber pensava a questo parallelismo?
Senta ancora Weber: “La politica si fa con la testa, non con altre parti del corpo o dell’anima”. “L’uomo politico deve dominare in se stesso, ogni giorno e ogni ora, un nemico: la vanità”, vale a dire il bisogno di porre se stessi in primo piano, nel modo più visibile possibile, alla ricerca di quella che poco più avanti Weber chiama la “luccicante apparenza del potere”.
Non c’è un vizio di fondo in quel che sta dicendo, quello di non considerare la grande differenza nel reclutamento della classe politica tra un paese e l’altro?
E’ vero ora, non una volta. La Dc aveva una dirigenza politica in cui erano presenti fior di professori, come Fanfani, Moro, Leone, Medici. Il Pci creò gli “indipendenti di sinistra” proprio per reclutare esperti, professori, competenti. E questo vale anche per il prefascismo e il fascismo. E i professori mostravano anche capacità politiche. Croce, in uno dei suoi pochi articoli scritti per il Corriere della sera, e meritoriamente ripubblicati da quel giornale, ha scritto che, quando era ministro dell’Istruzione del governo Giolitti, al termine di un suo intervento in Consiglio dei ministri, Giolitti, che presiedeva, si rivolse a un suo vicino, e, sottovoce, ma in modo che Croce sentisse, disse: “Abile politico, questo filosofo”.
Rimangono aperte molte domande. Una di queste è: come e dove si forma una classe politica?
Le racconterò la risposta data da un politico – professore italiano a un giornalista straniero, che me la riferì. Gli aveva chiesto: dove ha imparato a far politica con tanta efficacia e tanto successo? Gli rispose: me l’hanno insegnato i consigli di facoltà.
Ma non possiamo mandare tutti gli apprendisti politici nei consigli di facoltà.
Sarebbe un autentico guaio. Forse, però, possiamo imparare guardando quel che fanno in altri Paesi, dove non ambiscono a creare scuole di politica, perché la politica non è separata da tutte le altre cose che facciamo, anzi le abbraccia tutte, bensì pensano in termini di classe dirigente “tout court”. Quindi creano vivai da cui escono managers, politici, studiosi: pensi a coloro che studiano “classics” a Oxford o a Cambridge, oppure a coloro che passano attraverso l’Ena in Francia. La forza di coloro che escono da questi vivai sta anche nella grande versatilità, per cui il giorno dopo la laurea uno studioso dell’antichità può diventare analista finanziario in un fondo d’investimento, per poi passare a insegnare storia dell’impero romano in una università americana.
Ma con questo siamo andati lontani dal nostro tema, e le propongo di riprendere quest’altro argomento un’altra volta.