Aria di Palazzo
Non basta un treno per superare la fine dell'autosufficienza del Pd
Il viaggio di Renzi per l'Italia rischia di apparire come la messa in scena di un approccio alla campagna elettorale che è l’opposto di ciò che il sistema elettorale, la realtà politica e la prudenza suggeriscono
Sui giornaloni, l’Antologia di Spoon River di chi c’era dieci anni fa e non c’è più è risultata stucchevole, vagamente iettatoria, un artificio cronachistico che ha mascherato dati politici più significativi scaturiti dalla manifestazione celebrativa dei democratici. La cerimonia essenziale, basica (cinquemila euro di budget, anche queste son cose che contano) è stata sufficiente a trasmettere una percezione importante e tutt’altro che scontata solo pochi mesi fa: il Pd esisterà ancora fra dieci anni, le ripetute notizie della sua scomparsa erano largamente premature, ci sono le condizioni oggettive e le capacità soggettive per rimanere in partita anche nello scenario tanto diverso da quello carico di speranze del 2007. Non è ottimismo forzato, è la constatazione di una ritrovata discreta capacità di manovra e di una confidenza in se stessi più solida e diffusa, oltre il solo e solito vitalismo renziano (che non viene mai meno).
Il problema è che basta poco perché da questa consolazione si scivoli nell’illusione – che pure aleggiava all’Eliseo, unico tratto vagamente neo-democristiano – che la centralità che oggettivamente il Pd ha avuto per dieci anni nel sistema italiano possa perpetuarsi spontaneamente, fatto dovuto e scontato, com’era appunto per la Dc ai suoi tempi: che poteva avere momenti buoni e meno buoni, correre o frenare, imporre il proprio gioco o doversi adattare a quello altrui, ma rimaneva comunque padrona del centrocampo. La traduzione moderna di quella condizione è l’idea, per esempio, che eventuali futuri governi di larga coalizione potranno avere questa o quella guida, ma comunque sempre di un democratico si tratterà, e saranno sempre variazioni delle recenti esperienze a trazione Pd. E chi l’ha detto? Il Pd ora non è primo nei sondaggi né fra i partiti né fra le coalizioni, la sua centralità per come è stata rivendicata all’Eliseo è solo presunta, sia Di Maio che Berlusconi possono a ragione contestarla. E se per Renzi sarebbe difficile far digerire ai suoi un altro governo di larga coalizione col centrodestra, pare impensabile che possa far loro accettare – e accettare lui stesso, peraltro un minuto prima di uscire dalla scena politica – un governo di larga coalizione guidato dal centrodestra, di tipo merkeliano: eventualità possibile, perché no?
Forse Veltroni avrebbe potuto essere ancora un po’ più diretto col suo erede. Svelandogli che la vocazione maggioritaria era una gran bella cosa, ma ormai è un ricordo del passato. E che dopo aver preso atto della fine dell’autosufficienza di se stesso come leader del Pd, ora Renzi dovrà trarre conseguenze pratiche dalla fine dell’autosufficienza del Pd nel quadro politico: circostanza evidente a tutti e certificata dal sistema elettorale, ma che fin qui non ha spinto i democratici ad alcuna iniziativa conseguente. Anzi. Il treno che è partito martedì per girare l’Italia farà un bellissimo e applaudito viaggio, ma rischia di apparire come la messa in scena di un approccio alla campagna elettorale (di nuovo tutto centrato sul Pd e sul suo leader) che è l’opposto di ciò che il sistema elettorale, la realtà politica e la prudenza suggeriscono.
D’accordo che le coalizioni nella legge Rosato sono molto blande, e probabilmente destinate a non durare granché né a sinistra né a destra. Ma gli italiani che votano (sempre meno) vanno trattati seriamente, e andrà loro sottoposta una offerta elettorale quanto meno evocativa di quelle dei tempi del Mattarellum. Chi ci lavora? Che vuol dire se Pisapia da una parte e Calenda dall’altra si chiamano fuori? Basta il disegno geometrico astratto di dotarsi a sinistra di un cespuglio civico-rossoverde, a destra di uno moderato-cattolico, più un terzo europeista? Esiste una domanda di questo tipo nell’elettorato?
La cerimonia dell’Eliseo non serviva a porsi queste domande, e va bene. Neanche la conferenza programmatica di Napoli servirà a porsi queste domande, e andrà già molto meno bene. Fare politica in un ambiente coalizionale – perfino far finta di fare politica in un ambiente coalizionale – esige comportamenti conseguenti. Ci vogliono eventi e messaggi pubblici non connotati partiticamente. Coinvolgimenti e valorizzazioni personali non palesemente strumentali. Cessioni almeno parziali di sovranità. Diciamo che è un mestiere con regole particolari, diverse. Ecco perché, di nuovo, a Matteo Renzi tocca di dimostrare di saper fare un lavoro che non è esattamente quello per cui si sente portato.