Aria di Palazzo
Coalizione indigesta
Follia e metodo dietro allo scarto di Renzi su Bankitalia: le elezioni non si vincono con l’Unione
Il ragionamento che si ascolta fare a molti parlamentari, più o meno renziani, è tanto semplice da sfiorare il semplicismo: fino a oggi il teatrino dell’opposizione dura e pura alla legge Rosato è stato inevitabile. Ci sarà ancora uno strascico di qualche giorno, poi però tutti dovranno mettersi l’anima in pace e adeguarsi al nuovo sistema. A quel punto, la coalizione di centrosinistra che ora non c’è diventerà improvvisamente urgente per tutti, non solo per noi, e allora vedrai che nascerà, competitiva almeno quanto quella di Berlusconi.
Può darsi che le cose vadano davvero così, per un miracoloso effetto domino al contrario che rimetterà in piedi i tasselli che da un anno abbondante vanno invece tutti giù, travolti da un mix di logica politica e incompatibilità personali. Può darsi (anzi, è sicuro), che una parte del miracolo venga affidata a una finta mossa sul biotestamento al Senato e soprattutto alla concessione della cittadinanza ai giovani figli di immigrati: l’approvazione dello ius soli in fine di legislatura sarà benedetta (oltre che da coloro che sono titolati nel ramo, da Papa Francesco in giù) anche dalla narrazione neo-veltroniana secondo la quale su questo diritto civile si può misurare oggi quanto sia attuale, anzi più profondo che nel passato, il solco che distingue e separa la destra dalla sinistra.
Ma basterà questo richiamo identitario, insieme all’implacabile meccanismo del sistema elettorale, a dare senso compiuto a coalizioni non solo fin qui inesistenti, ma sistematicamente e intenzionalmente contraddette dagli stessi che adesso dovrebbero edificarle? Quanto impiegherà a uscire dai corridoi di palazzo e a raggiungere la pubblica opinione, quella obliqua e paradossale rassicurazione che deputati democratici e forzisti si scambiano a Montecitorio a proposito del carattere finto e rapidamente revocabile delle rispettive e teoricamente contrapposte coalizioni?
Una legge non scritta della politica avverte che le finzioni plateali non possono funzionare. Qui i Cinque stelle hanno un obiettivo punto di forza. E qui si capisce meglio il senso del violento scarto di Matteo Renzi rispetto all’operazione che era in atto intorno a Paolo Gentiloni, cioè la paziente ricostruzione di una rete di consenso tesa a salvare il salvabile del renzismo (uscito moribondo dal referendum istituzionale) riproponendolo in versione soft, moderata, rispettosa delle regole e delle procedure.
Dopo aver acconsentito (anche un po’ per costrizione, perché il neorenzismo moderato piace ai nove decimi della nomenklatura Pd, fin dentro i confini dell’ex giglio magico), il segretario si è ribellato. Con la maniere forti. Riaprendo col presidente del Consiglio una ferita che data almeno alla primavera scorsa e che era stata faticosamente suturata alla fine di agosto in un incontro faccia-a-faccia. Deludendo tutti i maggiorenti del partito. E mettendosi apertamente in rotta di collisione col capo dello stato attuale e col predecessore: per un uomo come Napolitano, ossessivo nella cura terminologica dei discorsi, dire che la fiducia sulla legge elettorale è stata messa da un premier “sottoposto a forti pressioni” equivale a una condanna senza appello.
Nello scarto di Renzi c’è della follia – intesa come impulso istintivo e rivincita del carattere sul ragionamento – ma c’è anche del metodo. Con qualche buon argomento, Renzi non crede a quel miracolo, di una coalizione inesistente che nasce per mera obbligazione di legge eppure si propone credibilmente agli elettori. Dovrà accettarla, o meglio subirla, ma fin da adesso mette in chiaro che non chiederà mai agli italiani di votare per una riedizione approssimativa e improbabile del centrosinistra che c’era. Coalizione o non coalizione, agli italiani chiederà ciò che ha sempre chiesto loro, dalle primarie alle europee, fino al referendum: di votare per lui. “Porterò dieci punti percentuali in più”, garantisce in questi giorni agli scettici, e molti fra questi sono parlamentari ansiosi di veder smentite le cupe simulazioni sui collegi, dunque disposti a fidarsi.
Il problema è che tra il 2014 e il 2016, tolti gli oppositori interni dichiarati, tutti gli altri accettavano che la scommessa di Renzi su se stesso coincidesse con la prospettiva del Pd. Ora non è più così. Ignazio Visco come persona e come governatore non ha alcun vero sostenitore fra i democratici, e neanche a Palazzo Chigi, ma la rottura che si consuma su Bankitalia torna a illuminare, di luce cruda, l’angolo meglio occultato dell’epopea renziana: la sostanziale irriducibilità del leader alle logiche di condivisione e di compromesso che soprattutto nei momenti di difficoltà e incertezza tengono insieme qualsiasi gruppo di lavoro, figurarsi il gruppo dirigente di un partito. Scopriremo presto – dopo il voto siciliano – se e fino a che punto questa tensione sarà sopportabile per il Pd.