La salutare divisione della sinistra
Un Pd che non molla sul jobs act è un argine contro il medioevo sindacale
Forse è un tentativo che andava fatto, ma certamente è un bene che sia finito con un nulla di fatto. Nonostante l’impegno per cercare un dialogo e la volontà di trovare un compromesso o un punto d’incontro, il tentativo di Piero Fassino di ricucire le lacerazioni nel campo del centrosinistra è fallito. Le aperture proposte da Fassino su Jobs Act e superticket, oltre che su ius soli e biotestamento, non sono sufficienti. “Il tempo è scaduto, non c’è margine per un’intesa”, dicono gli scissionisti di Mdp e Si. E al Pd non resta che prenderne atto e andare avanti sulla sua strada. Vista anche la legge elettorale che prevede coalizioni, molti valuteranno la rottura a sinistra come un indebolimento del Pd e del centrosinistra più in generale.
E’ probabile che sia così, ma è possibile anche che sia il contrario, come hanno ad esempio dimostrato in Francia gli strappi riformisti di Macron da un lato e quelli massimalisti di Mélenchon dall’altro. La cosa certa è che questa rottura definitiva è una novità positiva per il paese, un elemento di chiarezza per gli elettori. Non ci saranno più ammucchiate come l’Unione: i Macron andranno da una parte e i Mélenchon dall’altra. Da una parte, cioè, ci sarà la sinistra riformista del Jobs act e della riduzione delle tasse sui produttori di ricchezza e dall’altro quella che vuole restaurare l’articolo 18 e risolvere i problemi a colpi di tasse e patrimoniali. Non è un caso che la sinistra più massimalista, che ha in Pietro Grasso il suo leader, nascerà il 2 dicembre dall’unione di piazza con Susanna Camusso sul tema delle pensioni. Il Pd, se vuole diventare macroniano, deve invece dare risposte al mondo dei produttori: lavoratori e imprese.