La Spoon River di Virginia
Sono dieci i manager sepolti dal consociativismo del penta-governo romano
E dieci. Con le dimissioni di Stefano Bina, direttore dell’Ama, l’azienda rifiuti di Roma, l’avvicendamento ai vertici delle maggiori municipalizzate ha raggiunto il ritmo di uno ogni 51 giorni. Che accelererà se lascerà anche il presidente Lorenzo Bagnacani, inviso agli attivisti 5 stelle. Da quando Virginia Raggi s’è insediata in Campidoglio, giugno 2016, se ne erano già andati o sono stati messi alla porta Daniele Fortini, presidente e ad di Ama, e i due amministratori unici Alessandro Solidoro e Antonella Giglio. All’Atac i dg Marco Rettighieri e Bruno Rota e gli amministratori unici Armando Brandolese e Manuel Fantasia. All’Acea l’ad Alberto Irace e la presidente Catia Tomassetti, sostituita con Luca Lanzalone, legale del Campidoglio nella causa sullo stadio della Roma.
Senza contare il tourbillon degli assessori chiamati ad occuparsi delle casse pubbliche: Marcello Minenna, ex Bilancio, e Massimo Colomban, ex Partecipate. L’elenco è composto da manager dal curriculum maturato nelle efficienti municipali del nord e nel privato. Come Rettighieri, scelto da Ignazio Marino, un passato alle Fs e all’Expo; o Fortini, considerato il maggior esperto italiano di gestione e trattamento rifiuti. O Rota, ex dg dell’Atm di Milano. I profili non coincidono con la mistica grillina dei candidati “scelti dai cittadini”, cioè dalla Casaleggio Associati. Né col patto sottostante alla vittoria del 2016: non disturbare i dipendenti comunali, l’unico grande elettore. Rettighieri aveva indicato negli appalti interni le malefatte di Atac, Colomban 1.800 inabili su 8 mila dipendenti Ama. Raggi scopre che “i romani pagano più tasse di tutti per avere servizi peggiori”. La ricetta? “Più soldi dallo stato”. E dice: “Se serve ne cambio altri cento di dirigenti e assessori”. Appunto.