Negoziato ponte per il governo
Ora Roberto Fico vuol durare e Luigi Di Maio allude al voto, mentre nel Pd c’è Martina che fa disperare persino Franceschini
Roma. “Da lunedì, con i risultati del Friuli, con il centrodestra che si afferma e il Pd che arretra, cambia di nuovo tutto”, dice Lorenzo Fontana, il vicesegretario della Lega, con l’aria di chi guarda da lontano, con scetticismo, ma pure con interesse a quanto succede tra M5s e Pd. Staffette, messaggeri, aiutanti al galoppo che vanno da un accampamento all’altro recando dispacci enigmatici e minacce turbolente. “Nelle condizioni date non c’è nessuna possibilità di un accordo con i Cinque stelle”, dice allora Ettore Rosato, l’ex capogruppo del Pd, che sprofondato su un divanetto di Montecitorio passa in rassegna le parole appena pronunciate da Luigi Di Maio all’uscita dal suo colloquio con Roberto Fico, l’esploratore incaricato da Sergio Mattarella. “Di Maio ha fatto un intervento elettorale. Come di uno che vuole tornare al voto”, dice Rosato.
E il fatto è che a dominare è la confusione, una specie di gioco degli specchi e degli inganni che impegna sia il M5s, al suo interno, sia il Pd, al suo interno. E allora nel Movimento si assiste come a un’inversione dei ruoli, con l’ala movimentista di Fico che si fa governista, e l’area governista di Di Maio che si fa movimentista. Mentre nel Pd l’avanzata troppo rapida, giudicata da molti arrendevole se non addirittura insipiente, di Maurizio Martina verso i Cinque stelle ha fatto saltare tutti gli schemi, le strategie, le idee che erano maturate negli ultimi giorni e non solo dalle parti di Dario Franceschini, che è ancora il primo dei favorevoli all’alleanza con i grillini, ma pure nei quartieri renziani del partito. Perché Matteo Renzi era pronto – lo dicono tutti – a fare un’apertura “strategica e ragionata” bruciata però da Martina, “e nel peggiore dei modi”.
Non c’è una sola postazione fissa, non c’è un interlocutore univoco, un obiettivo riconoscibile. Ogni giorno si scava una trincea, o si costruisce un ponte, che l’indomani sono deserti. E infatti Fico, che a lungo è stato considerato dalla letteratura grillologica un ortodosso e un contestatore delle velleità in cravatta di Di Maio, esce dal suo incontro con Mattarella dicendo che “il mandato esplorativo ha avuto esito positivo e si conclude qui oggi. Il dialogo tra M5s e il Pd è avviato”. E questo avviene qualche ora dopo che invece Di Maio, quello che la cravatta la indossa ininterrottamente da cinque anni perché pensa che ci si debba vestire così per governare, fa il suo discorso più duro e movimentista dalla fine della campagna elettorale. “Rendiamoci conto che qui il tema non è andare con il Pd come non era andare con la Lega, qui si sta dicendo: fare il reddito di cittadinanza, ridurre le tasse, aiutare le famiglie che fanno figli, tagliare gli sprechi”. Quasi un elenco di promesse-proposte da comizio via Facebook. E poi una botta a Berlusconi, Belzebù, Caimano, con toni che sembrano gli stessi usati da Alessandro Di Battista qualche giorno fa e in quel momento criticati proprio da Di Maio che considerava quelle parole incendiarie e dannose per il dialogo e i negoziati con la Lega. Ma evidentemente è cambiato qualcosa. “E’ arrivato il momento di mettere mano a questo conflitto d’interessi”, dice ora Di Maio. “E’ arrivato il momento di dire che un politico non può essere proprietario di mezzi di informazione”. Così adesso Fico vuole durare, mentre Di Maio allude al voto.
Ma anche nel Pd la confusione dei ruoli è massima. “Se faremo un accordo con il M5s, lo farò io”, diceva Renzi qualche settimana fa ai suoi amici. L’ex segretario aveva persino ipotizzato di utilizzare la direzione del Pd per fare un’apertura pubblica, “ragionata”, al Movimento, “ponendo delle condizioni”. Poi però è arrivato il reggente Maurizio Martina che, dicono adesso i renziani, ma non solo i renziani, “ci ha messo tutti in braghe di tela”. Può mai il Pd accettare che il capo del governo sia Di Maio? No. Ma per rafforzare la posizione di Fico, tra i Cinque stelle, era necessario che il negoziato con il Movimento partisse da condizioni di forza. “Dovevamo spaccarli. Costringerli a pregarci”. E invece? “E invece ci siamo divisi noi”. E adesso? “E chi lo sa”. La direzione è il 3 maggio. Ma in mezzo ci mezzo ci sono le elezioni in Friuli. “E dopo cambia tutto di nuovo”, dice il leghista Lorenzo Fontana.