Governi da incubo
E’ possibile oppure no un governo tra populisti e sinistra? Girotondo d’opinioni
Si può, si deve trattare con tutti in politica? Anche con chi è nemico della democrazia rappresentativa? E un accordo Pd-M5s sarebbe un dramma o un’opportunità? Sul Foglio avete già trovato un girotondo sulla possibile convergenza di culture politiche (forse) impossibili da tenere insieme. In questa pagina trovate la seconda puntata, con altri interventi e opinioni.
Il progressismo non è il risultato di un algoritmo
Ieri sera in albergo a Bruxelles guardavo la televisione e mi sentivo un marziano. Dall’altra parte dello schermo intravedevo intellettuali (ex)organici della sinistra italiana teorizzare la svolta. A loro modo di vedere, anche con logica cartesiana, i partiti progressisti perdono voti, quei voti li guadagna il Movimento 5 stelle, il M5s è quindi un movimento di sinistra e per questa ragione il Partito democratico dovrebbe allearsi con il M5s contro le destre. Potrebbe essere una bella svolta consolatoria per anime progressiste in pena o per apparati in cerca di ricollocazione governativa. Il problema è che la politica non segue le regole della logica cartesiana. Abbiamo avuto movimenti e partiti politici di sinistra in Italia, organizzazioni che hanno contribuito a scrivere la storia del paese, non è detto che ne avremo ancora. Soprattutto non è detto che il progressismo sia il risultato di un algoritmo della piattaforma Rousseau. Il paese ha ancora bisogno di un partito progressista, che sia tale. Consegnarsi con le mani in alto e le braghe calate all’analisi dell’algoritmo e alla comunicazione di Casalino sarebbe un bel modo per mettere la parola fine anche alla sola speranza di esistenza di tale partito. A meno che non si voglia sostenere che il futuro della sinistra italiana sia nella modernità dell’algoritmo. A quel punto aspettiamoci di vedere militanti nelle piazze a gridare “la modernità deve finire!”.
Pasquale Annicchino
Questo matrimonio non s’ha da fare
“Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune” (Alessandro Manzoni, “I promessi sposi”). Anche oggi il buon senso (ovvero la capacità di giudicare con discernimento) sembra ritrarsi di fronte allo strapotere del senso comune (ovvero la capacità di mettere a proprio servizio la verità). Ecco, allora, che la linea del dialogo col M5s viene presentata da media e opinion-maker quasi come un vincolo morale: è un dovere confrontarsi con tutti, anche con i nemici peggiori. Fosse solo una questione di galateo istituzionale, se ne potrebbe anche discutere. Ma non si tratta solo di questo: bisogna dare un governo al paese, è in gioco il suo futuro, e il Pd non può dunque sottrarsi alla responsabilità storica che grava sulle sue pur gracili spalle. Del resto, in qualche misura non è anche l’erede di quel Pci che ebbe il coraggio di fare il compromesso storico? Confesso che quando sento questo argomento mi viene l’orticaria. Ma qualcuno può pensare sul serio che Luigi Di Maio sia l’Aldo Moro della “cyberdemocrazia”? Non scherziamo. E poi la politica di unità nazionale, perseguita dai comunisti dopo il 1976, fu concepita non come una risposta contingente a una situazione del tutto eccezionale (il terrorismo delle Br), ma come una scelta strategica che avrebbe consentito alla classe operaia di affermarsi come classe dirigente. Fu una forzatura, e le lacerazioni che determinò nei quadri e nell’elettorato di Enrico Berlinguer sono agli annali. Ora, si provi a immaginare il sentimento di rivolta che susciterebbe un “contratto di governo” tra Pd e Cinque stelle: al di là dei suoi improbabili contenuti, sarebbe vissuto come il tentativo di instaurare un regime politico coatto che nega differenze, pluralismo, battaglia delle idee. No, per il bene dell’Italia “questo matrimonio non s’ha da fare”.
Michele Magno
Ripartire dalla sconfitta del 4 dicembre
Per Filippo Turati, la rivoluzione era prima di ogni altra cosa, un costrutto culturale basato sulla contrapposizione tra le forze del bene e quelle del male. In altre parole, nell’universo culturale dei rivoluzionari, gli “altri” hanno sempre interessi meschini e sono un’unica e indistinta massa reazionaria da schiacciare. A ben guardare, siamo sempre lì. I rivoluzionari si considerano, oggi come allora, antropologicamente diversi dai riformisti: ritengono di essere un “tipo umano” mai esistito prima e destinato a traghettare l’umanità verso la fine della storia. E “quando si sbandiera la propria onestà – aggiungeva sarcastico Turati – bisogna abbottonarsi la giacca e proteggere il portafoglio”. Nei Cinque stelle troviamo tutti gli ingredienti tipici di quella tradizione culturale: l’Italia e il mondo intero sono governati da un sistema sociale e politico catastrofico; viviamo in una società totalitaria in cui i mezzi di informazione manipolano le menti delle persone, ecc. Insomma, il peccato pervade il mondo e a un gruppo di pochi eletti spetta il compito di purificarlo.
Se prendiamo i grillini sul serio, dall’incontro tra M5s e Pd non può venire niente di buono. Con Renzi il Pd ha cercato di “dimenticare Berlinguer”, provando a uscire in modo definitivo da quella tradizione liquidando definitivamente il vecchio mito della “crisi ineluttabile” del capitalismo e una sinistra che ha trovato nella denuncia morale un comodo surrogato dell’iniziativa politica. Ripiombarci significherebbe sancire la sconfitta definitiva dei riformisti, l’impossibilità per la sinistra italiana di emanciparsi dal lascito di Berlinguer. Come hanno messo in evidenza Paggi e D’Angelillo già negli anni 80, il Pci non è mai riuscito a passare dall’arte di “salvare l’Italia” a quella di governare in condizioni di normalità. Ma il Pd non deve “salvare” l’Italia, deve fare le riforme. Il risultato del referendum ci costringe ancora dentro al vecchio recinto. Ma bisogna ripartire da li, provando anzitutto a rilanciare la riforma istituzionale per introdurre anche in Italia il semipresidenzialismo alla francese. Anche perché l’Italia non uscirà dalla crisi finché quel 60 per cento che il 4 dicembre ha votato No non capirà di avere sbagliato.
Alessandro Maran
Matrimonio d’interesse, con letti separati
Né dramma né opportunità: un governo M5s-Pd, posto che si faccia, discende dalla necessità. Non per nulla è ciò che si augurano i mercati, svanita con il 4 marzo l’ipotesi Pd-FI. Il motivo è il solito: un debito pubblico monstre in gran parte in mani straniere è meglio non affidarlo alle cure del tandem Matteo Salvini-Luigi Di Maio. La sovranità limitata è spiacevole, ma agli occhi di chi ci presta denaro il capo della Lega resta l’amico di Marine Le Pen e Nigel Farage. Invece Di Maio è un quidam con programma fasullo e taroccato, pronto a passare con un clic dall’antieuropeismo al macronismo: a torto o ragione (credo più la seconda) considerato addomesticabile. Che sia pronto a tutto pur di “non tradire i cittadini” – cioè a non rimetterci la ghirba – lo si è visto del resto in questi 55 giorni. Che i suoi si siano rivelati incapaci di mantenere le promesse, basta chiederlo a romani e torinesi. Il Pd può approfittare di queste debolezze accettando un matrimonio di mero interesse (spesso funzionano meglio); cioè chiedendo per sé o per esperti di buona reputazione i ministeri strategici: Economia, Sviluppo, Infrastrutture, Interni. Che i grillozzi si scornino con gli altri, a cominciare dal Lavoro dove dimostreranno che reddito di cittadinanza e pensioni erano balle. Letti separati, e alla Casa Bianca vada pure Di Maio. Salvini griderà al “Nord tradito”? Presto diverrà un suo problema. Ahimè, fossimo l’Estonia o l’Olanda avrei sadicamente voluto vedere all’opera i gemelli Frankenstein: ma non poteva permetterselo la Francia, figuriamoci noi.
Renzo Rosati
Per il progressismo non è tempo di ingenuità
Lasciamo per un attimo da parte gli hashtag, gli insulti, i veleni della campagna elettorale, le card sui social, il Pd come la piovra, ecc. e proviamo a portare il ragionamento su un piano politico più alto, come molti giustamente in queste ore invitano a fare. Le tesi di chi non chiude a un governo coi Cinque stelle, lato Pd, spaziano dal “non si può lasciare il paese senza un governo”, al “bisogna far di tutto perché l’internazionale populista non vada al potere”, al “serve un presidio capace di difendere quanto di buono e riformista fatto dai governi Renzi e Gentiloni”. Tutti seguono la logica dell’“andiamo a vedere, cerchiamo dei punti di convergenza e lavoriamo su quelli”. Come se ci trovassimo di fronte a uno scenario classico di contrattazione in ambito proporzionale tra forze diverse ma capaci di convergere all’interno di una solida e comune cultura parlamentare e di governo. Più che le tesi, che di loro hanno tutte più o meno senso, è proprio l’assenza di questo presupposto che mi fa propendere per un no secco a ogni tipo di accordo Pd-M5s: per trovare un compromesso, e quindi per rinunciare a un pezzo delle proprie convinzioni in nome di un obiettivo più alto, bisogna avere ben chiaro che visione ha l’altro contraente e bisogna avere la certezza che si accetti di giocare seguendo entrambi le stesse regole. Su questo punto che garanzie dà il M5s? Nessuna, anzi. Per non parlare di visione del paese: dire algoritmicamente tutto e il contrario di tutto significa scrivere qualsivoglia tipo di contratto sull’acqua. Vale oggi, domani chissà. Così, se le cose non andranno, già sappiamo di chi sarà la colpa: di chi non può cambiare idea. Responsabili va bene, umili anche (vista la recente batosta ci mancherebbe altro), ingenui però no. Non è così che si risponde al mondo dei furbi. Per il progressismo è tempo di intelligenza, non di ingenuità.
Federico Sarica
Il Pd non faccia Chamberlain
Se il Pd accettasse un ruolo subalterno in una coalizione con i Cinque stelle si comporterebbe come Neville Chamberlain a Monaco. Winston Churchill commentò quell’intesa dicendo: “Potevate scegliere tra l’onore e la guerra, avete scelto il disonore e avrete la guerra”. Naturalmente non intendo dire che Luigi Di Maio assomigli a Adolf Hitler, ma che quando ci si rifiuta di resistere all’arroganza altrui per paura delle conseguenze immediate (in questo caso un ricorso a elezioni anticipate) si finisce col patirle poi lo stesso e in una condizione di maggiore debolezza. Ci sono condizioni che renderebbero meno pesante il prezzo da pagare per un’intesa con i Cinque stelle? Forse sì, a cominciare dalla designazione di un premier che non sia il “capo politico” dei Cinque stelle, ma è difficile che Di Maio rinunci alla sua irripetibile occasione. Accordi programmatici, invece, si possono sempre fare, con un uso spregiudicato del vocabolario, ma poi, quando con l’azione concreta di governo si dovrà passare dall’elenco delle intenzioni alla loro traduzione in misure legislative, la foglia di fico delle ambiguità verbali è destinata a cadere. Anche l’idea che almeno un’intesa con i Cinque stelle permetterebbe al Pd di superare la difficile prova delle amministrative parziali di giugno mi pare illusoria. Per ottenere un apporto dei Cinque stelle nei ballottaggi il Pd dovrebbe arrivarci e poi non è affatto detto che anche in questo caso l’elettorato grillino appoggi i candidati democratici, anche se ricevesse un’indicazione in questo senso dai vertici. Guadagnare tempo ha un senso solo se si sa come impiegarlo e non sembra questa la condizione del Pd di oggi.
Sergio Soave
Formazione e tattica per una partita impossibile
Se, se, se… è il momento dei se. Siamo tutti allenatori e sediamo tutti in panchina a dettare la formazione e stabilire la tattica. Quindi anche io. Che avrei messo in campo un bel gioco alla Liverpool. Palla sempre profonda, niente palleggi laterali e incursori con piedi buoni per disorientare e cogliere impreparate le difese. Se, quindi, fossi stato il Pd avrei fatto alcune cose semplici. “Volete parlare con noi per formare un governo? Perché no, ma queste sono le nostre condizioni non negoziabili”. Europa, nessun protezionismo, euro non si tocca, attenzione al debito pubblico, Fornero e Jobs Act e buona scuola al massimo qualche aggiustamento, riduzione del carico fiscale. Ah, già che ci siamo dovete dichiarare pubblicamente che vi siete sbagliati quando definivate il Pd un partito di mafiosi, che rispettate l’autonomia dei simboli parlamentari e quindi togliete quelle multe ridicole e che separate le vostre piattaforme dalla Casaleggio Associati. Mica vorrete favorire il conflitto di interessi! Siccome un noto editore pare abbia detto che i Cinque stelle sono malleabili come la plastilina magari Di Maio diceva di sì. E allora via con la seconda tappa. I nostri ministri, dice il Pd, saranno Renzi, Gentiloni, Calenda, Minniti e Delrio. No, la Boschi no, anche se magari un bel sottosegretariato importante perché no. Niente di tutto questo accadrà. Anzi Martina vorrebbe travestirsi da grillino per andare al governo e cancellare l’agenda Renzi. Quindi io sono solo un allenatore da bar. Ma vuoi mettere il divertimento.
Chicco Testa
Evitare la tragedia di un governo Lega-M5s
“L’avvenire non è più, in parte, nelle nostre mani”, ebbe a dire Aldo Moro dopo la sconfitta della Dc alle regionali del 1975. La severità della sconfitta politica del 4 marzo lascia nelle mani del Pd molte meno carte ancora. E tuttavia, il nostro ruolo è tutt’altro che irrilevante e grande è quindi la nostra responsabilità. Penso che non dovremmo lasciare nulla di intentato per evitare all’Italia la tragedia di un governo Lega-Cinque stelle. Può pensare di godersi lo spettacolo sgranocchiando pop-corn solo chi dimentichi che ci saremmo tutti a bordo di quell’aereo, messo in mano a due piloti aspiranti suicidi. E’ vero, non è più, in parte, nelle nostre mani impedire questa tragedia. Ma, appunto, in parte. L’unica responsabilità che vorrei non ci assumessimo è un concorso di colpa nel determinare questo esito. Meno tragico, certamente, il ritorno al voto. Ma è realistico, e dunque razionale, attendersi un esito elettorale diverso, e possibilmente in meglio, da quello appena registrato? Non mi sentirei di sostenerlo. Resta allora la sfida, insieme rischio e opportunità, di un accordo M5s-Pd. I rischi sono noti. Mi interessa l’opportunità: di dividere i Cinque stelle dalla Lega di Salvini, evitando lo scivolamento dell’Italia verso Visegrad; di smontare e rimontare il nostro riformismo a confronto con chi si è fatto portavoce del suo rifiuto di massa; di sfidare il primo partito italiano, nato da un movimento fondato su uno sberleffo, a fare i conti con la durezza del governare e a scoprire che la riforma europea alla Macron è l’unica via d’uscita dalla crisi italiana.
Giorgio Tonini